Scrive Brecht, alla vigilia della seconda guerra mondiale: Quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio!
Il tempo dei pensieri indulgenti verso gli anni bui, quello in cui all’umano un aiuto è l’umano, non è venuto: così è toccato a un italiano del sud del Mediterraneo, Mahmood, ricordarci, con le parole di Lucio Dalla, che la storia umana è storia di violenze contro i poveri scaraventati in mare e di guerre dei poveri per conquistare uno scherzo di terra; che chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche; e che il pensiero dà fastidio, perché come il mare non lo puoi recintare – è per questo che stanno bruciando uccidendo umiliando piegando il mare. E tocca ad altri due italiani del sud del Mediterraneo, Darghen e Ghali, ricordarci che per un pezzo di terra o una linea di confine stanno bombardando gli ospedali, che in questo momento ci sono bambinз sotto le bombe senza acqua, senza cibo. Italianз verз, davvero: che non si limitano a galleggiare in superficie.
Tanto è bastato perché un tale che vanta amicizie di famiglia con Ignazio La Russa sin dai tempi in cui l’attuale presidente del Senato non aveva problemi a dichiararsi fascista – uno che ha il coraggio di affermare che “la destra politica italiana che mai ha mancato di schierarsi con Israele in politica estera è in prima fila nella condanna dell’Olocausto e delle orrende leggi razziali, la più grande tragedia della Shoah”, abbia tuonato contro questi “messaggi che creano antisemitismo”, parole che “portano divisioni che causano odio”. Sovrapponendo, non per la prima volta, il proprio parere alla carica di presidente della Comunità Ebraica di Milano, Walker Meghnagi ha dettato la linea, sostenendo di parlare a nome di “gran parte del mondo culturale”: quello di Sanremo è “uno spettacolo che dovrebbe unire gli italiani” che non può “affrontare temi che non allietano le famiglie”, perché “in un momento di guerra si cerca moderazione”. Che parlino di alberi, questi cantanti!
A Meghnagi si è aggiunto l’ambasciatore israeliano Alon Bar, parlando di diffusione “di odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile” dal palco di Sanremo. Meghnagi e Bar hanno condito la sua intemerata con un elenco delle atrocità compiute da Hamas e Jihad il 7 ottobre, col consueto sottinteso: che le brutali violenze del 7 ottobre devono non solo antecedere ogni parola sulle atrocità in corso a Gaza (quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti di condannare Hamas…), ma di fatto imporre il silenzio su queste stragi: chi esercita il potere, anche in una microcomunità, non è disposto a fare distinzioni poetiche verso quel pensiero libero che dà fastidio – come volevasi dimostrare.
Ghali e lз altrз cantantз non hanno bisogno di essere difesi: la loro lingua batte perché la mente vuole, e Ghali lo ha dimostrato rispondendo senza esitazioni. Ma è giusto sostenerlз in questo linciaggio mediatico, sottolineando aspetti indegni, quando non fascisti, dei linciatorз.
In primo luogo, che la presunzione di colpevolezza verso chiunque non nomini e dettagli l’orrore del 7 ottobre sottende in modo subdolo una duplice equazione: che chiunque non sia al fianco del governo di Israele è nemico degli ebrei, dunque antisemita; e che ogni palestinesə (compresз quellз nella West Bank) è responsabile, dunque merita la punizione che viene inflitta a un intero popolo.
A costo di ripetermi, se costretto a premettere qualcosa, premetto che lз palestinesз non sono terroristi, e lз israelianз non sono coloni: sono due popoli, al cui interno ci sono molteplici differenze che non si lasciano rinchiudere in un’etichetta. E identificare un intero popolo con una sua parte, con una fazione, con uno stile di vita, con una posizione politica, è una pratica fascista. E che, per chi ha un’età e un vissuto cui i nomi di Tell-al Zaatar e Sabra e Shatila significano qualcosa, è il massimo dell’orrore vedere sopravvissutз di quei massacri agire come fecero lз massacratorз dei loro avi. Tal quale lo è vedere discendenti dellз scampatз ai lager e ai pogrom europei costruire lager, compiere pogrom nei villaggi, colpire mercati e abitazioni civili con lo stesso disprezzo per l’Altro dei carnefici europei dei loro avi.
Quanto alla pornografia morale che si esprime nelle descrizioni con dovizia di particolari gore e splatter del 7 ottobre, viene in prima battuta da chiedersi in cosa l’orrore di un padre che ricompone il cadavere del figlio sgozzato in un kibbuz è diverso dall’orrore di un padre che raccoglie e porta via in un sacchetto dei rifiuti le sparse membra del figlio dilaniato da un missile in un campo profughi. Quali sono i parametri di valutazione, le quantificazioni numeriche fra l’uno e l’altro orrore? Ma soprattutto: cosa c’è nella coscienza morale di chi è dispostə a intraprendere questi calcoli, a trarne le somme e istituire giudizi di merito fra il peggio e il meno peggio?
Quale differenza c’è fra chi pianifica e attua una strage indiscriminata come quella del 7 ottobre, e chi programma con un algoritmo un sistema di intelligenza artificiale (ma di programmazione umana) denominato Habsora (“The Gospel”) in uso nell’esercito israeliano che può generare obiettivi quasi automaticamente, ponendo in essere una “fabbrica di omicidi di massa”? Che l’IDF usi questo programma lo ha rivelato un’inchiesta realizzata da due testate israeliane, +972 Magazine e Local Call, ripresa dal Guardian (e, in Italia, da Internazionale e il manifesto). Uno dei militari dell’IDF intervistato ha dichiarato:
Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa.
[Nothing happens by accident. When a 3-year-old girl is killed in a home in Gaza, it’s because someone in the army decided it wasn’t a big deal for her to be killed – that it was a price worth paying in order to hit [another] target. We are not Hamas. These are not random rockets. Everything is intentional. We know exactly how much collateral damage there is in every home]
Elencare nel dettaglio i particolari dello scannatoio è qualcosa che concerne la responsabilità morale di chi fa informazione, così come del narratorə. Ne La Storia di Elsa Morante a due donne, la sedicenne Mariulina e sua madre, i nazisti fanno qualcosa che sarebbe potuto accadere loro il 7 ottobre in un kibbuz; nondimeno Morante, che pure fu accusata di suscitare facili commozioni, si guarda bene dal fornire dettagli al lettore, lasciando alla sua maestria di scrittura il far comprendere ciò che non viene detto: è la differenza fra arte narrativa e pornografia morale. Ma c’è un altro aspetto di questa perversa arte del dettaglio, messo in luce dallo storico Enzo Traverso: queste descrizioni contengono il sottinteso che “noi” certe cose non le facciamo, che le fanno “quellз altrз” per quello che sono; e siccome “noi” siamo occidentali, “loro” sono orientali, e tutto ciò che l’occhio coloniale occidentale designa come tratto orientale (compresi l’essere, oltre che barbaro e selvaggio, arabo e musulmano) viene a costituire quella visione dell’altro dall’occidente che Edward Said definiva “orientalismo”.
E invece “certe cose” le facciamo, e le abbiamo fatte, anche “noi” occidentali civilizzatз e cristianз. Le fecero le milizie paramilitari serbe (cristiano-ortodosse) in Criozia, quelle croate (cattoliche) nella Kraijna, ed ambedue contro lз musulmanз e rom di Bosnia: ma le fecero a telecamere spente, perché non avevano necessità di raggiungere l’opinione pubblica globale. “Quelle cose” le fanno le guerre, e al loro interno gli esseri umani in quanto tali; è una delle differenze fra specie umana e altre specie viventi, ed è quello che l’alieno chiede al terrestre nella canzone di Ghali:
Ma, come fate a dire che qui è tutto normale / Per tracciare un confine
Con linee immaginarie bombardate un ospedale / Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane.
Colpisce la coda di paglia di chi ha immediatamente identificato nell’aviazione israeliana l’autore delle bombe sugli ospedali, in una canzone (peraltro scritta prima del 7 ottobre) dove non viene nominato il luogo; e colpisce, al contrario, la puntualità della denuncia del rapper, che risuona nei giorni in cui un’inchiesta del New York Times (ripresa da Internazionale) dimostra che l’esercito israeliano sta demolendo sistematicamente interi quartieri che non sono obiettivi militari (compresi acquedotti e sistemi fognari), rendendo di fatto impossibile il ritorno dei profughi, in evidente esecuzione di un disegno di pulizia etnica.
È genocidio? La sentenza giuridica la lascio agli organi di giustizia internazionale, che hanno comunque deliberato per l’ammissibilità dell’accusa. Sul piano morale e politico, che è altra cosa, io dico sì: ma soprattutto, dico che è legittimo pensarlo, e dirlo.
Lo può dire un cantante a un festival di musica leggera? C’è qualcosa di patetico nel negarlo, perché ritornano in mente i tempi in cui Battisti e Mogol fondarono l’etichetta “Acqua Azzurra” per contrapporre la musica disimpegnata e sentimentale all’ondata di impegno politico che stava egemonizzando i testi e le musiche di cantanti e gruppi. Ma ancora più indietro negli anni, c’era un ebreo comunista berlinese, Walter Benjamin, che propose in un congresso internazionale di scrittori antifascisti (erano tempi in cui gli intellettuali facevano cose del genere, invece di lamentarsi dello spoil system attuato dalla controparte politica) la politicizzazione dell’estetica: l’uso dell’arte per risvegliare le coscienze. Anni dopo Hannah Arendt avrebbe riproposto lo stesso tema, e cioè la necessità di mantenere viva la capacità di distinguere il bene dal male (la facoltà di giudizio) in un’epoca nella quale la banalizzazione della quotidianità e il prevalere della ragione strumentale e utilitaristica causano l’assopimento di questa capacità, sino a generare quella banalità del male che consiste nel non chiedersi se sia giusto o meno (al limite: ci si chiede se sia utile, o bello) un determinato comportamento.
È quella banalizzazione cui ci stiamo abituando nel considerare le guerre in corso con spirito da ultras, o come male necessario ma utile; senza peraltro mettere in discussione, a fronte dell’immane macello al limite del genocidio attuato, la pochezza dei risultati ottenuti dal governo israeliano.
Ghali, al contrario dei suoi linciatori, una coscienza civile e morale ce l’ha: lo ha dimostrato lo scorso anno, donando la lancia Bayna (stesso nome della canzone in arabo cantata a Sanremo il 9 febbraio) a Mediterranea.
Ghali ha tutto il diritto di dire quel che pensa – così come ha il diritto di triggerare lз razzistз cantando “Italiano vero” –, soprattutto se le sue parole sono queste:
Continua questa politica del terrore, e non va bene. La gente ha sempre più paura di dire “stop alla guerra” e “stop al genocidio”. Le persone sentono che perdono qualcosa se dicono “viva la pace”, non deve succedere questo. Ci sono i bambini di mezzo: io da bambino sognavo e ieri sono arrivato quarto a Sanremo. Quei bambini stanno morendo, chissà quante star, quanti dottori, quanti geni ci sono tra loro.
Ascoltandole, mi sono ricordato di altre parole, che io stesso tradussi 25 anni fa; sono andato a ricercarle, eccole:
Un giorno ho pensato – un giorno memorabile, il giorno in cui mi assegnarono il premio Nobel: chissà quanti geni che avrebbero potuto salvare il mondo; geni che avrebbero potuto trovare la cura dell’AIDS, che avrebbero potuto scrivere un poema contro la fame, l’umiliazione; qualcuno che avrebbe forse trovato la cura per il cancro. Chissà quanti bambini futuri geni, redentori della società, sono stati uccisi all’età di dieci anni, o di tre.
Era il 5 settembre 1989, a pronunciare queste frasi era Elie Wiesel (nella presentazione del suo romanzo L’oublié, a Parigi). Non poteva sapere che l’esercito israeliano avrebbe, un giorno, programmato un algoritmo per consentire a un razzo di uccidere una bambina di tre anni senza alcuno scrupolo morale.