1.
Dietro ai numeri recentemente diffusi dal Viminale, sul calo degli arrivi via mare in Italia, si cela la negazione del diritto al soccorso, con un incremento percentuale delle vittime, frutto della collaborazione con Frontex e con i paesi terzi, nel contrasto di quelle attività che vengono definite come “immigrazione illegale” anche quando si tratta di eventi di ricerca e salvataggio (SAR), che in base al diritto internazionale ed ai Regolamenti europei imporrebbero interventi immediati.
Non si tratta di prassi innovative. Già nel 2010, dopo che il Trattato di amicizia siglato a Bengasi da Belrusconi e Ghedafi nel 2008 rese operativo il Protocollo aggiuntivo firmato il 27 dicembre 2007 (governo Prodi), che prevedeva la collaborazione con le autorità libiche, nelle intercettazioni in mare dei barconi che tentavano la traversata verso l’Italia,ed i respingimenti collettivi in Libia direttamente eseguiti in acque internazionali da unità militari italiane, il numero degli “sbarchi” era drasticamente calato rispetto agli anni precedenti. Ma nel 2012 la Corte europea dei diritti dell’Uomo condannava l’Italia sul caso Hirsi per i respingimenti collettivi verso Tripoli. E dal 2011 le partenze dalla Libia aumentavano in modo esponenziale, a dimostrazione del fatto che il numero dei migranti in fuga dalla Libia, come dagli altri paesi di transito, dipende dalla situazione sofferta dalle persone migranti in questi paesi, oltre che dalle condizioni meteomarine, e non certo dalle effimere politiche di difesa dei confini, inasprite ad ogni scadenza elettorale, in Italia, come nel resto dell’Unione europea.
Dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e soprattutto dopo la “strage dei bambini” dell’11 ottobre 2013, il governo italiano varava l’operazione Mare Nostrum, e dopo la fine di questa operazione, nei primi mesi del 2015, dopo la strage a nord delle coste libiche del 18 aprile, la strage più grande del Mediterraneo, Frontex con l’operazione TRITON, rispettava alla lettera gli obblighi di soccorso stabiliti dal Regolamento UE n.656 del 2014, che rafforzava gli obblighi di ricerca e salvataggio, con un drastico calo delle vittime. Fino a quando l’operazione non veniva sospesa perchè cominciava a circolare l’accusa che i soccorsi in acque internazionali avrebbero incrementato le partenze (pull factor), e quindi il numero delle persone sbarcate in Europa. Quasi tutti gli assetti navali di Frontex, allora numerosi nel Mediterraneo centrale, venivano ritirati o schierati in modo da non trovarsi sulle rotte più battute dai barconi che si allontanavano dalla Libia (e dalla Tunisia). Dal 2018 Frontex ritirava quasi tutte le imbarcazioni che negli anni precedenti avevano contribuito a salvare migliaia di persone in pericolo nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
Da allora, soprattutto dopo il Consiglio europeo del 14 settembre 2015, che ridefiniva i compiti di Frontex e lanciava la missione Eunavfor Med Sophia, prevaleva di nuovo una politica di contrasto della immigrazione “illegale”, e di sistematica omissione di soccorso, attuata a livello nazionale ed europeo, allo scopo di utilizzare come fattore di deterrenza i rischi sempre più alti di fare naufragio in alto mare. Come se imbarcarsi su un barcone fatiscente per fuggire dagli “orrori indicibili” nei diversi centri di detenzione della Libia, definiti così dalle Nazioni Unite, fosse una colpa per cui si poteva pagare con la vita, anche dei propri familiari, il tentativo di raggiungere un porto sicuro in Europa. Attraverso l’unico canale rimasto aperto, quello offerto da scafisti e trafficanti. E sempre più spesso gli scafisti erano altri migranti costretti ad assumere la guida dei barchini messi in mare dalle organizzazioni criminali con la complicità delle milizie che controllavano il territorio.
2.
La strage “di Cutro”che si consumava nella notte tra il 25 e il 26 febbraio dello scorso anno, oltre agli scafisti immediatamente individuati e mandati a processo con grande clamore mediatico, non ha ancora altri colpevoli, a livello di quelle autorità che per ore seguivano la rotta del barcone, come se si trattasse soltanto di attività di contrasto di un tentativo di immigrazione illegale (law enforcement), senza attivare immediati interventi di soccorso, che avrebbero potuto impedire il rovesciamento del barcone, giunto davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, e poi schiantatosi nel buio della notte, su una secca resa invisibile dal mare agitato. Che impediva qualsiasi intervento delle unità navali della Guardia di finanza e della Capitaneria di porto, inviate quando ormai era troppo tardi. L’inchiesta che rimane aperta su questi soccorsi procede a fatica, e le notizie che filtrano sono ancora contraddittorie, tanto da far dubitare che si possa superare il prevedibile sbarramento frapposto alle indagini dai vertici militari e politici.
Eppure la ricostruzione della catena di comando di quella notte non dovrebbe essere difficile. Sono note le norme vincolanti, come il Regolamento europeo n.656 del 2014,, che dovrebbero regolare le attività di contrasto dell’immigrazione “clandestina” via mare e le operazioni di ricerca e salvataggio (SAR) che purre nell’ambito di queste attività “illegali” rimangono obbligatorie. L’individuazione dei veri responsabili della strage di Cutro si può ricavare da questo impianto normativo, direttamente vincolante nell’ordinamento interno, e dalla ricostruzione dei soggetti responsabili delle operazioni di soccorso (SAR), anche nei casi di attività originariamente classificate come eventi di immigrazione “illegale”. Una simile ricostruzione della catena di comando si trova, oltre che nel procedimento per la strage dei bambini dell’11 ottobre 2013, concluso con la dichiarazione della prescrizione, ma anche con un preciso accertamento di responsabilità istituzionali, agli atti dei tanti procedimenti penali incardinati contro esponenti delle ONG impegnate nel Mediterraneo, e tra le righe dei provvedimenti di diniego di ingresso nelle acque territoriali, e di successivo fermo amministrativo delle navi umanitarie. I soccorsi in mare non possono essere confusi con le attività di monitoraggio di eventi di immigrazione clandestina (law enforcement). Eppure, malgrado notizie circostanziate sul sovraccarico dei barconi o sul peggioramento delle condizioni meteo, questi eventi non vengono classificati come eventi SAR in favore di persone che si trovano immediatamente in situazione di grave pericolo (distress). Da parte delle autorità di polizia e dei rappresentanti di governo, si contesta sempre che le imbarcazioni soccorse in acque internazionali fossero davvero in una situazione di distress e si cerca in tutti i modi di criminalizzare le attività di ricerca e salvataggio condotte dalle ONG in autonomia, come se queste attività svolte “in autonomia” si potesse riscontrare un intento volto ad aggirare la normativa italiana contro l’immigrazione clandestina.
Nel caso Rackete la Corte di Cassazione, con la sentenza n.6626 del 2020, poneva però un limite preciso alle attività di law enforcement (contrasto dell’immigrazione irregolare) che si traducono in divieti di ingresso nelle acque territoriali, e richiamava strumenti di diritto internazionale ratificati dall’Italia e pertanto pienamente efficaci nel nostro ordinamento: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS-Safety of Life at Sea, stipulata a Londra nel 1974 e ratificata dall’Italia con legge n. 313 del 1980); la Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (SAR, stipulata ad Amburgo del 1979 e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989, nonché con il D.P.R. n. 662 del 1994); la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritto del mare (UNCLOS, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994). Si trattava secondo la Corte, di «disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima».
Due le argomentazioni ricorrenti che si ritrovano tanto per i casi che si verificano sulle rotte dello Ionio, quanto per quei casi più numerosi che ricorrono nell’area del Mediterraneo centrale, tra le coste libiche e tunisine e le coste italiane. In entrambi i casi Malta avrebbe un ruolo centrale, ma la mancata ratifica dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR), svincola le autorità de La Valletta dal rispetto degli obblighi di soccorso in acque internazionali, sanciti dagli emendamenti alla Convenzione introdotti con una Risoluzione MSC 167/78 approvata nel 2004 dall’IMO. Circostanza questa che accresce le responsabilità degli Stati costieri titolari di zone SAR confinanti con Malta, che sono quindi tenuti ad intervenire per attività di ricerca e salvataggio (SAR) tutte le volte che le autorità maltesi rifiutino di intervenire, o dichiarino di non disporre dei mezzi necessari per garantire con tempestività ed efficacia la salvaguardia della vita umana in mare. In Italia, peraltro, il Codice della Nvigazione sanziona all’art. 1113 il reato di omissione di soccorso con pene che sono poi aggravate in caso di naufragio :”Chiunque, nelle condizioni previste negli articoli 70, 107, 726, richiesto dall’autorità competente, omette di cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave, di un galleggiante, di un aeromobile o di una persona in pericolo ovvero all’estinzione di un incendio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Il concetto di “persona in pericolo” può ritenersi corrispondente al termine inglese distress adottato nelle Convenzioni internazionali. In casi analoghi sarebbero pure configurabili altri reati legati all’abbandono in mare di persone migranti e di minori, come ha recentemente deciso la Corte di Cassazione nel caso ASSO 28.
3.
a) La tesi di fondo che si sostiene da parte delle autorità di governo e dei relativi vertici militari, per rifiutare o ritardare le attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, si basa sulla qualificazione degli eventi di soccorso come eventi di immigrazione irregolare,almeno fino a quando si riesce a dimostrare che le imbarcazioni sono in buono stato di galleggiabilità,e procedono lungo una rotta diretta verso l’Italia, In questo caso le finalità di contrasto dell’immigrazione illegale, se l’imbarcazione sospetta si trova in acque internazionali, si risolvono nel mero tracciamento del natante, anche dal cielo, senza interventi diretti, che obbligherebbero peraltro le autorità che intervengono a mare ad individuare un porto di sbarco sicuro (POS) nel territorio dello Stato.
b) Il secondo argomento che si utilizza per escludere un obbligo di soccorso immediato è quello consueto del richiamo alla suddivisione del Mediterraneo in distinte zone SAR (Search and Rescue)riconosciute dai singoli Stati costieri, all’interno delle quali sarebbero soltanto le autorità nazionali a coordinare le attività di ricerca e salvataggio, salva la possibilità ove necessario, ma a loro esclusivo arbitrio, di richiedere assistenza alle autorità marittime degli Stati responsabili di zone SAR confinanti. Gli Stati membri non si possono comunque limitare ad operare attività di ricerca e salvataggio soltanto all’interno della propria zona SAR, e infatti nello Ionio sono numerosi gli interventi dei guardiacoste italiani nella zona SAR maltese.Tra Malta ed Italia, si procede però caso per caso, e purtroppo, gli accordi rimangono spesso sulla carta, ancora oggi, come ai tempi della strage dell’11 ottobre 2013.
Ed è proprio dagli atti processuali che si ricavano, nelle dichiarazioni rese dalle autorità politiche e militari ai più alti livelli, argomentazioni prive di basi legali, fino ad oggi utilizzate per ridurre gli interventi di soccorso delle autorità statali in acque internazionali, per criminalizzare le attività di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative, con decine di procedimenti penali fin qui conclusi con provvedimenti di archviazione, e per legittimare le guardie costiere di paesi che non rispettano i diritti umani. Quando si citano dati che segnalerebbero una riduzione degli “sbarchi”, occorre pensare a queste ricorrenti violazioni dello Stato di diritto ed al costo umano sempre più grave, anche se in termini relativi, che la riduzione degli “sbarchi” comporta. Appare ormai accertato come lo scorso anno la stretta sui migranti subsahariani in Tunisia abbia aumentato le partenze verso l’Italia, ed adesso molte persone sono fuggite in Libia, da dove tenteranno comunque la traversata del Mediterraneo, non appena le condizioni meteo lo permetteranno.
4.
“Nessun naufrago di cui sia nota la posizione in acque internazionali può essere lasciato in pericolo perchè si tratterebbe di un evento migratorio illegale, o per attendere l’intervento di unità navali di altri Stati, o per altre ragioni che comunque ritardino il salvataggio della persona in una condizione attuale di distress in mare. Il Decreto legge n.1 del 2020, sotto molteplici profili, anche per la sua concreta attuazione, appare dunque in contrasto frontale con quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Non appena avuto notizia di una persona in pericolo in acque internazionali, qualsiasi comandante di una nave che lo possa soccorrere efficacemente ha l’obbligo di soccorrerlo dirigendosi sul luogo segnalato alla massima velocità, avvertendo dell’evento di soccorso le autorità SAR competenti e quelle titolari di zone SAR vicine. Lo impongono l’art. 98.1 della Convenzione UNCLOS e il Cap. V, Reg. 33(1) della Convenzione SOLAS, Dopo il soccorso le persone vanno sbarcate in ul luogo sicuro (Place of safety-POS), senza che questa indicazione che spetta alle autorità nazionali possa essere negata adducendo il carattere di evento migratorio illegale, assegnato a posteriori all’evento di ricerca e salvataggio (SAR)’.