Credo si possa dire, abbastanza a ragione, che in questi ultimi anni, parallelamente alla crisi della sinistra marxista e radicale, quella propensione verso l’accettazione della “violenza necessaria”, come passaggio ineludibile verso la costruzione di un “mondo migliore”, sia progressivamente entrata in crisi, o quanto meno si sia venuta a trovare in condizioni di crescente difficoltà.
Nella stragrande maggioranza dei casi non si è trattato di una aperta e consapevole presa di posizione, legata magari ad un approfondito dibattito intorno alle scelte tattiche e strategiche da adottare, quanto piuttosto una sorta di lento “scivolamento”, quasi mai dichiarato, e forse anche non del tutto consapevolmente acquisito, verso pratiche politiche più vicine a scelte di tipo pacifista. Ne è testimonianza, (per così dire a contrario), la costatazione del fatto che chi ancora oggi ritiene l’uso della forza come necessario per mutare lo stato presente delle cose, si vede costretto nei fatti ad un surplus di giustificazioni ideali e politiche. È probabile che alla base degli attuali mutamenti ci sia il progressivo affermarsi di una visione più libertaria delle relazioni umane e politiche, ed una entrata in crisi della visione, di lontana matrice leninista, della centralità della “presa del potere”, come presupposto di ogni mutamento sociale, che anche quando non prevede l’uso di mezzi violenti, non può fare a meno di assolutizzare la centralità del politico e della politica.
Le pratiche legate ad una consapevole accettazione di politiche ispirate a scelte di nonviolenza, nell’attuale situazione di incertezza, fanno però fatica ad affermarsi. Specialmente rispetto alla dimensione degli scontri geopolitici e ai venti di guerra che li percorrono ci si chiede in modo legittimo, se pratiche rigorosamente ispirate alla nonviolenza possano essere efficaci per affermare i diritti dei popoli oppressi e di chiunque sia costretto a subire gli atti di forza delle grandi potenze statali, che da sempre fanno della guerra, come massima espressione della violenza arbitraria del più forte, il loro modo di gestire le relazioni internazionali.
Mi è capitato più di una volta di trovarmi di fronte ad una sorta di esperimento mentale che chiedeva di riflettere su quanto le pratiche nonviolente messe in atto da Gandhi in India, sarebbero state possibili, e con quali esiti, per contrastare il nazismo e la shoah. “Gandhi ad Auschwitz” che si stende sui binari per fermare i treni che portano gli ebrei verso il campo di sterminio è una immagine che apparentemente non ha bisogno di altri commenti. Vedremo però di seguito che le cose sono più complesse. Prima però prendiamo sul serio l’obiezione che viene fatta alla possibile inefficacia della nonviolenza, almeno in certe situazioni estreme.
Credo che alla base di ogni ragionamento critico nei confronti della nonviolenza ci stia l’idea che attraverso le sue pratiche non si possano che vincere battaglie che in realtà, di fronte al farsi della storia, risultano, per così dire, come fossero “già vinte”. La nonviolenza in sostanza giocherebbe facile. Approfondendo la questione vedremo che non è così. Tuttavia ad un primo e superficiale approccio, questa idea può sembrare avere un qualche fondamento. Gandhi, in fondo, nella sua battaglia contro l’occupazione imperialista dell’India da parte del Regno Unito, non faceva che assecondare e accelerare un processo storico che era ormai nella logica delle cose, e che si sarebbe affermato comunque a livello globale come processo di decolonizzazione. Anche la battaglia portata avanti da Martin Luther King per i diritti dei neri americani, date le circostanze storiche in cui avveniva, non poteva non avere un esito positivo, almeno sul piano della semplice dichiarazione politica e del puro aspetto giuridico formale. Ancora più emblematico è il caso di Nelson Mandela, che dopo essere stato negli anni cinquanta e sessanta il promotore della frazione armata del African National Congress, e dopo avere rifiutato negli anni ottanta l’offerta di scarcerazione in cambio dell’abiura della lotta armata, a partire dagli anni novanta, e in condizioni politicamente mutate e più favorevoli, si rese protagonista di uno storico processo di pacificazione del suo paese, che può essere considerato ad oggi uno dei massimi successi della politica ispirata alla non violenza.
Porre al centro delle questioni l’immediatezza del risultato politico da ottenere, non è tuttavia il modo giusto per comprendere il vero significato e il vero valore della scelta e delle pratiche di nonviolenza. L’errore, a mio avviso, sta nel considerare la nonviolenza qualcosa che ha a che fare in modo prioritario con le categorie del politico e con lo schieramento dei fronti, e dunque con le scelte pratiche più opportune per raggiungere l’obiettivo in modo vincente, massimizzando il risparmio di tempo e di forze. La nonviolenza può essere una fondamentale discriminante per la scelta politica sia di ordine tattico che di ordine strategico, solo in quanto essa si pone su un piano diverso, che è poi il piano dell’etica. Anzi possiamo considerare la nonviolenza come un modo concreto attraverso il quale si afferma la superiorità dell’etica, come riferimento e guida rispetto ai molti ambiti della vita, compreso quello inerente all’agire politico. Non c’è politica giusta se essa non è ispirata a valori etici, a loro volta considerati giusti e condivisibili.
La nonviolenza è dunque e innanzitutto una postura etica, che come tale deve plasmare ogni aspetto dell’esistere, configurandosi come l’affermarsi di un modello antropologico di ordine generale, che nella fattispecie tende a valorizzare i caratteri tipici dell’umano nella sua considerazione di animale sociale, nato cioè per vivere con gli altri. Una scelta di principio in cui si pone come centrale “il benessere dell’altro”, che incontrandosi col proprio benessere, si fa fondamento del “bene comune”. “L’altro in me prima di me” come diceva Levinas. Una scelta di relazionalità affettiva nel senso etimologico dell’affettività intesa come ad facere, “fare qualcosa per”, o a vantaggio di qualcun altro.
È bene precisare che non è mia intensione quella di affermare una sorta di banale e melenso buonismo, adatto a condire qualunque minestra. Credo che siamo tutti perfettamente consapevoli che di fronte alle ingiustizie e alla propensione, da sempre dominante, a risolvere i conflitti e le contraddizioni con l’imposizione del dominio e con la guerra, il nostro compito non è salvare la nostra anima, ma battersi con l’intento di cancellare tutte le storture che ci affliggono e che affliggono il mondo. Ma su questa via il pericolo è quello di cadere nella trappola del realismo dello scontro, che finisce col farci interiorizzare il modo d’essere dell’avversario che vogliamo sconfiggere. Porre la centralità della nonviolenza, innanzitutto come scelta esistenziale di ordine etico, significa affermarne il valore di guida per ogni aspetto della nostra vita. Qualcosa che riguarda, in buona sostanza, la totalità del nostro esserci, in quanto nostra modalità di essere nel mondo. Un modo globale di porsi rispetto al quale ogni scelta particolare deve fare necessariamente i conti, che sia essa di ordine privato o pubblico, che riguardi l’economia, la politica, o quant’altro ancora.
Se mi è permessa, a questo proposito una digressione di ordine personale, mi piace ricordare che a conclusione di un percorso che mi ha portato dal militarismo della vecchia sinistra antagonista degli anni sessanta e settanta, fino ad abbracciare i valori della nonviolenza, la mia prima scelta non ha riguardato problematiche di tipo politico, quanto piuttosto la decisione, vissuta come ovvia e naturale, di diventare vegetariano, a testimoniare della nonviolenza come attitudine a promuovere e massimizzare la vita, in ogni modo e in tutte le sue possibili forme.
Questo tipo di scelta, una volta assunta nell’ambito della propria dimensione esistenziale, tende immediatamente a strabordare divenendo un modo critico ed antagonista di valutare l’intera storia della civiltà umana.
È ormai convenzionalmente accettata l’idea che la civiltà umana abbia avuto le sue origini poco dopo l’inizio dell’olocene, circa 10.000 anni a.C., quando gli umani da cacciatori e raccoglitori si fecero agricoltori e allevatori. Ciò che caratterizza sin dalle origini la nostra civiltà è l’imporsi generalizzato di una “logica del dominio”, che da allora ed in modo sempre crescente ha costituito la cifra di ogni processo, anche nel senso progressivo di positive conquiste storiche e civili. Non è questo il luogo per mettere in gioco una concezione generale della storia umana. Ci limitiamo pertanto a sottolineare, ai fini del nostro discorso e senza troppe dimostrazioni, come ciò che abbiamo chiamato logica del dominio è quanto si è originariamente espresso come rapporto dell’uomo col suo habitat, attraverso il dominio che si è imposto sulla natura e sugli animali, la cui esistenza è stata piegata ai nostri interessi e ai nostri fini. Questo dominio ha avuto come sua naturale conseguenza quella di trasferirsi a livello intraspecifico, producendo il dominio dell’uomo sulla donna e il dominio dell’uomo sull’uomo. Queste quattro forme di dominio, dell’umanità sulla natura e sugli animali, e poi all’interno stesso del consesso umano, dell’uomo sulla donna e sull’uomo stesso, le indichiamo nel senso di una successione logica ma non cronologica, essendosi prodotte in modo sincronico sin dalle origini.
Precisiamo a questo punto che con “logica del dominio”, intendiamo una forma di razionalizzazione della violenza, che da evento puntuale, o forse meglio, da insieme di eventi singolari non sistematicamente correlati o strutturati, diviene sistema complesso e gerarchico di controllo sociale, in cui l’atto di forza viene monopolizzato come legittimo da chi, in quanto più forte, detiene il potere. L’affermarsi, cioè, di un principio d’ordine che si impone sull’anarchia della violenza diffusa, attraverso la violenza accumulata e centralizzata, ed usata infine come minaccia e deterrente sociale. Una condizione che sta alla base del costituirsi delle società organizzate gerarchicamente fino al prodursi del moderno Stato nazione di stampo Occidentale. Espressioni di un potere centralizzato che da sempre, all’imposizione della pace armata all’interno dei confini del proprio dominio, oppongono il sistematico ricorso alla guerra nel prodursi della competizione e dei conflitti sul piano internazionale.
Tornando a noi: se la violenza, principalmente nella forma del dominio, è stata una costante della storia umana, (giusto per non arrivare a dire che ne è stata l’elemento costitutivo), allora schierarsi per la nonviolenza, da semplice scelta esistenziale, finisce col trasformarsi in un modo di lettura globale del passato e nel bisogno di una visione rivoluzionaria di completo ribaltamento del presente e della storia. Un nuovo inizio, dunque, ma che ha le proprie radici nella storia umana, vista ora dal punto di vista di chi il dominio lo ha subito: gli ultimi, gli sfruttati, gli umiliati e gli esclusi. E poi le donne soprattutto, la cui condizione di esclusione e sfruttamento può essere considerata come la precondizione di ogni altro male e di ogni possibile diseguaglianza. A tal proposito si potrebbe anche esemplificare la rivoluzione della nonviolenza, (se volete con un’espressione anche un po’ ad effetto), definendola come “l’essere madre”, che si impone come metafora universale dell’agire umano liberato e come sinonimo del “dare e promuovere la vita” in contrapposizione al “procurare la morte”, insito nelle logiche del dominio e della guerra.
A questo punto, arricchiti da questo bagaglio di riflessioni e acquisizioni teoriche e valoriali, possiamo tornare alla questione della fattibilità delle pratiche di nonviolenza rispetto alle condizioni del nudo realismo della politica. Qui ritroviamo il nostro Gandhi, che avevamo lasciato in attesa del suo destino, disteso sui binari di fronte ai cancelli di Auschwitz, e chiediamoci: “È necessariamente destinato alla sconfitta?”. Dipende! Intanto bisogna capire se è solo o se migliaia, o forse anche milioni, lo hanno seguito, cosa che in forza del numero potrebbe fare la differenza. Ammesso però che fosse rimasto isolato, avrebbe due possibili scelte. Potrebbe sottrarsi in attesa di tempi migliori, e dunque potrebbe semplicemente evitare di essere lì. Ma potrebbe anche fare la scelta di votarsi al martirio e darsi nelle mani del nemico. Sarebbe una sconfitta? Ragionando nella logica dell’esito immediato, spesso così caro all’agire politico, la risposta sarebbe ovviamente: “Si! Sarebbe una sconfitta figlia di un gesto inutile!”. Ma si dice che il tempo è galantuomo e ha (a volte) il vizio di farsi Storia (qui volutamente con la maiuscola). Il sacrificio di sé come extrema ratio è una opzione sempre possibile in difesa delle proprie idee e delle proprie credenze. Ed in particolare e per ovvi motivi, appare anche perfettamente compatibile ed in linea con i forti contenuti valoriali espressi dalla nonviolenza come strumento di lotta ideale, ma anche di battaglia politica.
Gandhi (o chi per lui, posto che abbia la stessa visibilità), che si immola di fronte alla barbarie nazista, sarebbe diventato un monito etico dal valore universale e caratterizzato da una estrema potenza evocativa da consegnare come fulgido esempio ai tempi futuri e alle future generazioni. Vincere “dopo”, agli occhi della storia e quando è vera vittoria, è decisamente più importante che vincere (o credere di aver vinto) nell’immediatezza del tempo presente.
Se posso permettermi una parentesi, ancora con un altro riferimento personale, vorrei ora ricordare due miei vecchi compagni d’armi: Peppino Impastato e Mauro Rostagno, entrambi uccisi dalla mafia ma divenuti col tempo (sicuramente il primo, ma, non so perché, molto meno il secondo) vere icone e fulgidi esempi di lotta per il trionfo della giustizia e del bene comune. Difficile dire che siano morti invano.
Tutto risolto dunque? Non proprio! Si dà infatti il caso che il sacrificio di sé rappresenti un caso eccezionale sempre legato alla libera scelta di chi lo compie. Ciò che lo rende esemplare e dirompente nella sua valenza è proprio la sua unicità e irripetibilità. Si tratta, in sostanza, di un modello ideale che si pone come limite estremo, che può essere approcciato per indicare la giusta via, ma che non può essere, per definizione, proprio in ragione del suo essere un fatto straordinario, né imitato né ripetuto. Al contrario la pretesa di un eroismo generalizzato potrebbe anche scadere nella patologia sociale e politica.
In conclusione, e tornando a ciò che direttamente ci riguarda: il militante nonviolento di fronte alla violenza subita, specialmente nei casi estremi in cui è in gioco la vita, può mantenersi fedele al proprio credo e astenersi eroicamente da qualunque prova di forza, semplicemente arrendendosi al misfatto altrui. Non è impotenza, ed è una sconfitta che sui tempi lunghi, come abbiamo visto, può cambiare di segno e divenire vittoria. Ma resta comunque il fatto che il suo atto eroico, specialmente se spinto fino al sacrificio, non può determinare alcun tipo di obbligazione né di natura etica, né di carattere politico, che possa valere universalmente per i suoi sodali. Il sacrificio resta per pochi e non è una soluzione generalizzabile.
Proprio in ragione di questa mancata obbligazione al sacrificio, credo che anche il militante nonviolento non può non accettare (per esempio) il principio del diritto alla “legittima difesa”, come è sancito in modo ormai pressocché universale, dal diritto penale dei vari paesi. In questo caso il riferimento specifico, come è tipico del diritto, rimanda alla responsabilità personale del singolo individuo, ed è ovviamente limitato ai casi di stretta necessità.
Quando l’agire si pone in una dimensione che rimanda ad una responsabilità sovraindividuale o collettiva, il diritto si fa da parte e lascia il passo alle categorie del politico e al concreto darsi delle scelte e delle pratiche politiche. In questo caso il diritto alla legittima difesa diviene più propriamente “diritto di resistenza”, riferibile ai popoli aggrediti o oppressi, o a qualunque altro aggregato sociale costretto a subire forme di violenza. Di fronte agli abusi subiti e alla loro possibile forza distruttiva, credo si debba dire che, almeno in linea generale, il dovere di ogni militante della nonviolenza sia innanzitutto quello di cercare di restare fermo sui propri valori e principi come guida delle proprie scelte e delle proprie azioni, almeno finché questo è possibile per sé o è anche proponibile rispetto al fare collettivo.
Quando ogni ragionevole limite di sicurezza e di integrità personale e collettiva viene messo in discussione, la scelta non può che riferirsi a se stessi o al proprio gruppo di appartenenza, ma non può costituire motivo di giudizio negativo nei confronti di quanti dovessero adottare, nell’esercizio del legittimo diritto di resistenza, modalità di lotta e di difesa che prevedono un qualche esercizio della forza (anche armata), purché quest’ultimo sia messo in atto in comprovate condizioni di stretta necessità e secondo un criterio di minimizzazione del danno.
Ciò che è veramente importante nella valutazione di queste situazioni che possiamo considerare estreme, (ma che purtroppo sono anche del tutto comuni in questo nostro mondo dominato dalla rapina imperialista e dalla guerra), è che questa sorta di neutralizzazione del giudizio etico rispetto ai contenuti della nonviolenza, non diventi anche indifferenza rispetto ai valori complessivamente espressi dalle lotte sociali e di liberazione. Giusto per essere chiari: Il fatto che il conflitto che oppose i criminali nazisti ai resistenti partigiani fosse combattuto con le armi in pugno, non potrà mai portare chi è schierato con i valori della nonviolenza ad una posizione di equidistanza (tutti armati dunque tutti cattivi), senza tenere conto che vi era un aggressore e un aggredito, una parte che si batteva per perpetrare l’oppressione, un’altra per conquistare la libertà.
Ancora più importante è mantenere questa complessità di giudizio rispetto ai conflitti che insanguinano oggi il mondo. Il genocidio che sta sistematicamente portando avanti Israele nei confronti dei Palestinesi non ha giustificazioni, e va condannato come il più odioso dei crimini contro l’umanità. Eventuali eccessi nel legittimo esercizio del diritto di resistenza da parte di specifiche formazioni palestinesi, possono pure essere stigmatizzati in linea di principio (a parte il fatto che non giovano neppure alla causa), ma non possono mutare di una sola virgola il giudizio di condanna senza appello delle mostruosità perpetrate da Israele.
Possiamo concludere questa breve disamina sulla nonviolenza sintetizzando quanto abbiamo detto sulla sua complessità, che chiama ancora una volta in causa le distinzioni tra etica e politica, e tra coscienza individuale e pratiche dell’agire collettivo.
La nonviolenza ha una doppia valenza. Per un verso essa è innanzitutto, come abbiamo visto, una scelta etica che si rivolge principalmente alle coscienze individuali imponendo una visione del mondo che nella sua universalità valoriale si impone come impellenza esistenziale, che per sua natura tende ad imporsi alle resistenze figlie dei tempi, dei luoghi e di ogni circostanza specifica e particolare. Per altro verso essa è poi, e conseguentemente alla stessa scelta etica, un modo di fare e di intendere la politica. In questa veste essa si trova sempre in bilico tra l’esigenza di riaffermare la primazia dei valori e la nuda realtà delle cose imposta dal realismo della pratica politica.