Martyrion è un viaggio tra gli scempi ambientali dal nord al sud d’Italia, un progetto performativo, fotografico e di denuncia che abbraccia la visione eco-femminista delle realtà di lotta territoriali, di cui raccoglie vertenze e testimonianze.
Ne parliamo con Teresa Antignani, artista e ideatrice del progetto, realizzato insieme alla fotografa Sara Terracciano.

Perché nasce il progetto Martyrion?

Questo progetto performativo e fotografico realizzato insieme alla fotografa Sara Terracciano ha lo scopo di fare emergere le visioni e le vertenze delle realtà minoritarie di contrasto allo scempio ambientale, un progetto che rende tangibile come l’arte possa sicuramente occuparsi di colossi ma stando da una parte ben definita della barricata. Gli incredibili scatti della fotografa Sara Terracciano riprendono scene di martirio sugli stessi luoghi della colonizzazione da parte di multinazionali e colossi energetici, a testimoniare, contro ogni previsione e ogni statistica, una resistenza fatta di corpo e bellezza che ha preso posto accanto a comitati e associazioni, accanto ai medici e alle madri, ai bambini, agli allevatori, agli avvocati e agli attivisti che vivono l’inquinamento di corpi, ambiente e tessuto sociale in prima persona.

Cosa ti ha fatto scattare questa passione per l’arte e l’ambiente?

Ho dipinto e dipingo praticamente da sempre, ho studiato pittura a Brera e ho una specializzazione in Sociologia. Vengo dalla provincia di Caserta, da un piccolo borgo che si chiama Presenzano. Un luogo dove ogni cosa parla di bellezza e violenza. Un territorio politicamente al margine, dove la natura è potentissima ma confini così vicini ad altre regioni lo rendono preda di sciacallaggio. In generale potremmo definire l’Alto Casertano come il “non luogo” logisticamente perfetto per multinazionali e colossi che hanno bisogno di spazio per i propri impianti mastodontici e complicità della classe politica per le loro condotte colonizzatrici troppo spesso fuori da ogni norma di legge. Martyrion nasce da qui: dal legame con il mio borgo natio e dal tentativo disperato di scongiurare la costruzione dell’ennesimo impianto per la produzione di energia in un territorio che vanta tra Agro Caleno e Basso Molise la presenza di due inceneritori, un cementificio, due impianti termoelettrici da 800 MW, una centrale idroelettrica da 1000 MW, impianti per lo smaltimento di rifiuti pericolosi, discariche abusive di rifiuti tossici interrati tra le più estese d’Europa. Martyrion nasce dall’attivismo e dal magico connubio con la fotografa Sara Terracciano.

Perché avete scelto di usare l’iconografia dei martiri cristiani?

C’era il bisogno di parlare delle lotte ambientali nella maniera più trasversale possibile per non inceppare nei meccanismi comunicativi della politicizzazione a tutti costi che rischia di escludere una buona fetta di società civile da un dibattito che riguarda ogni corpo. Per farlo avevamo la necessità di fare riferimento ad un immaginario già radicato, condiviso, emotivamente coinvolgente e iconograficamente riconoscibile da tutte le componenti del pubblico a cui volevamo rivolgerci. Le storie dei martiri, oltre che per il loro fascino, stupiscono per la crudezza e la efferatezza delle violenze subite dai corpi in contrapposizione alla serenità dei volti che trasudano giustezza e fede. Credo che si tratti di una delle forme di coscienza della resistenza più toccanti.

E’ difficile organizzare la scena?

La complessità degli scatti di Martyrion sta nella loro duplice natura: una legata formalmente alla storia dell’arte da cui prendiamo ispirazione per le pose; l’altra connessa indissolubilmente al contesto territoriale in cui andiamo ad interagire con realtà di lotta ambientale, associazioni per la tutela della salute umana, medici, fotografi, attivisti: ogni scatto porta con se una storia, ogni tappa è connessa all’altra dal filo rosso delle relazioni che abbiamo incontrato lungo il nostro pellegrinaggio. Per realizzare una foto di Martyrion abbiamo bisogno di circa tre giorni di lavoro tra sopralluoghi, prove di luce, angolazioni e prospettive con cui riprendere gli impianti e studio della posa.

Avete mai ricevuto minacce da parte dei colossi che avete alle spalle nelle foto?

Non direttamente dai rappresentanti delle multinazionali. Le intimidazioni e talvolta le minacce più frequenti le abbiamo ricevute durante i sopralluoghi, gli allontamenti poco cortesi li abbiamo subiti durante gli scatti direttamente sui territori, da guardie e perfino dsi lavoratori ma le censure più efferate ci vengono fatte dal basso. In Italia (e non solo) c’è una paura generalizzata che non ci consente neanche di riuscire ad essere pubblicate e credo che questo possa essere considerato più demoralizzante di qualsiasi minaccia.

Come mai rappresentate soprattutto donne?

La rappresentazione di soggetti principalmente femminili è al centro della mia narrazione artistica anche pittorica ed è parte di una operazione di rilettura dei temi più noti della storia dell’arte in chiave femminile. In Martyrion i corpi femminili sono inscindibili dal fatto che sia io stessa donna (non potrei raccontare altri corpi se non il mio), dal dato sconcertante che mostra come i corpi delle donne siano quelli maggiormente esposti alle conseguenze dell’inquinamento ambientale (e qui mi riferisco agli studi sulla diossina presente nel latte materno o all’incidenza del tumore al seno nella piana di Venafro) e dal legame profondo con alcune figure femminili, per me fonte di grande ispirazione, protagoniste delle proteste territoriali in grado di incarnare il concetto di cura (penso prima di ogni altra a Miriam Corongiu, alle Mamme per la Salute e l’Ambiente di Venafro, ad Alessandra Caragiuli, a Simona Peluso, a Virginia Rondinelli, alle Mamme del quartiere Tamburi e a tantissime altre ancora da conoscere). Potremmo inserire questa tendenza in una riflessione più ampia che fa delle donne – oltre che l’oggetto prediletto dell’accanimento della violenza patriarcale, sia essa manifestata attraverso la violenza carnale, la colonizzazione dei territori, l’usurpazione, l’estrattivismo massiccio o la malattia – il perno fondamentale di una società in grado di perseguire una prospettiva socio-politica non radicata nell’idea e nella pratica del profitto a tutti costi.

Si parla tanto di greenwashing, ma c’è anche l’artwashing, cioè usare arte e artisti per mascherare, edulcorare, mistificare, distrarre dall’impatto ambientale delle aziende. Tu sei stata a vedere Organismi ed evoluzione, il 9 novembre a Milano, evento di arte organizzato da Colacem. Che impressioni ne hai tratto?

Che i colossi finanzino gran parte degli enti, degli eventi, delle fondazioni e delle organizzazioni che determinano la quasi totalità del dibattito culturale e artistico italiano non è una novità. L’evento dedicato all’arte e alla sostenibilità organizzato e sponsorizzato dall’azienda eugubina poi è stato un momento di autoreferenzialità e retorica “oscena” (nel senso di “fuori dalla scena” che ne dava Carmelo Bene). Un susseguirsi di proiezioni su maxischermo di foto, video ed elaborazioni artificialmente intelligenti realizzate all’interno e attorno agli impianti di produzione del cemento Colacem. Approssimative dal punto di vista artistico, retoriche nella narrazione e concettualmente vuote, le immagini proposte rappresentano l’emblema di un’involuzione che trova nel conformismo la sua unica raison d’être: una messa in scena senza alcun sussulto di identità, scollata dalla realtà, il cui unico scopo è parso essere il compiacimento del committente.

Un evento in cui non si è fatto altro che sentir parlare delle verdissime vallate su cui insistono i cementifici. Eppure queste verdi vallate sono le stesse ricoperte di cadmio, arsenico e piombo nella Piana di Venafro.

Che idee avete per il futuro con questo progetto fotografico?

L’intento è quello di continuare a raccogliere dati e vertenze per dare vita ad un archivio-osservatorio della distruzione sistematica di interi ecosistemi a partire dalle realtà del Mezzogiorno, dei territori vilipesi e compromessi nella marginalità silenziosa in cui si fatica a lottare contro l’omertà, la meschinità della politica locale e la rassegnazione generale. L’augurio è quello di continuare ad avere al nostro fianco sempre più alleati, raccoglierne i rigurgiti di rabbiosa dignità e raccontare le loro storie. In fondo il senso più prossimo del martirio è proprio quello della testimonianza, terrei fede a quest’ultimo.

 

Foto 1

Simona e Andrea, 2023, dal progetto Martyrion, Ph © Sara Terracciano, Taranto.

La sentenza del processo “Ambiente Svenduto” per i danni causati dall’ILVA di Taranto, ha visto condannate 44 persone fisiche e 3 società con pene che vanno fino a 22 anni di reclusione per disastro ambientale e ha pronunciato la confisca degli impianti a caldo dell’acciaieria più grande d’Europa, gli stessi impianti che vediamo nello sfondo della foto e che, anche se sotto sequestro, restano con facoltà d’uso agli attuali gestori della fabbrica (una legge del 2012 ritiene l’acciaieria pugliese strategica per l’economia nazionale). Come per Vincenzo Fornaro anche in questo caso il pro getto vuole raccontare una delle molte storie di resistenza incontrate a Taranto: la storia di Simona Peluso, madre attivista, membro del comitato “Genitori tarantini” e di suo figlio Andrea, affetto da una malattia rara. Pochi mesi prima del nostro incontro Simona aveva deciso, durante una manifestazione indetta per sollecitare la chi usura e la messa in sicurezza dell’impianto, di radersi i capelli in pubblica piazza per denunciare la difficilissima situazione in cui versa lo stato di salute dei bambini tarantini: emerge dall’aggiorna mento dello Studio Sentieri che il dato di Taranto è esattamente di 600 bambini nati malformati dal 2002 al 2015. Vi è in particolare – se si disaggrega il dato globale – un +43% rispetto al dato regionale per le malformazioni al sistema nervoso. Ispirandosi all’iconografia della Madonna col bambino, Teresa, Simona e Andrea hanno posato davanti l’acciaieria.

 

Foto 2

Il patibolo di Giovanna D’Arco (2021), dal progetto Martyrion, Teresa Antignani, Ph © Sara Terracciano,

Pozzilli (IS).

Nella foto Teresa è in posa davanti all’inceneritore Herambiente, nella zona industriale di Pozzilli che insiste sulla piana di Venafro, dichiarata zona critica dal punto di vista sanitario dal ISS. L’impianto ha una portata di 93.000 Tonnellate di rifiuti per un totale di emissioni annue in atmosfera dei seguenti inquinanti: 1 Kg di mercurio; 2 Kg di Cadmio; 15 Kg di diossina, 122,53 tonnellate di diossido di azoto, 2,52 tonnellate di ammoniaca, 2,64 tonnellate di monossido di carbonio, 2,25 tonnellate di acido cloridrico. Nel biomonitoraggio eseguito in un’area di 5 km intorno all’impianto è stato constatato l’accumulo in crescita di cadmio, piombo e mercurio (dati del Rapporto WWF Molise). Nel dicembre 2022 un’ordinanza del Sindaco di Pozzilli vieta coltivazione e pascolo per oltre 11.000 ettari del Comune a seguito delle indagini della procura di Isernia che accertano la presenza di benzopirene, arsenico e cadmio sui terreni.

Foto 3

Sant’Agata, 2023, dal progetto Martyrion, Ph © Sara Terracciano, Galatina (LE).

In questo scatto Teresa posa con delle angurie tra le mani: interpreta Sant’Agata, martire a cui sono stati strappati i seni. Questa foto è stata scattata davanti ad uno degli impianti più impattanti del territorio salentino, il Cementificio COLACEM di Galatina (LE). Lo scatto nasce inizialmente per denunciare la situazione dell’impianto Colacem di Sesto Campano (IS) dove da anni, associazioni come le Mamme per la Salute e l’Ambiente di Venafro che si battono per la tutela ambientale, hanno promosso studi tossicologici che hanno rilevato la presenza di diossina in campioni di latte materno.