La Città 30 nasce per rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini e al diritto di potersi spostare al suo interno senza il tributo quotidiano di morti e feriti sulle strade e in particolare sulle strade urbane. Gli incidenti stradali – è bene ricordarlo – sono infatti la prima causa di morte tra i giovani sotto i 24 anni.  La Città 30 non è soltanto una riduzione di velocità, ma un “intervento” più ampio e complesso di riqualificazione dell’ambiente urbano mediante la restituzione di spazio pubblico alle persone, alla loro sicurezza e socialità. Un intervento sempre più necessario in un Paese dove l’auto, sempre più voluminosa e sempre più ingombrante, la fa da padrone assoluta: l’Italia ha uno tra i tassi di motorizzazione più alti al mondo, con 681 auto ogni 1.000 abitanti (https://www.isfort.it/2023/11/21/presentazione-del-20-rapportoaudimob/).

Le Città 30 non sono certamente una novità dell’oggi; se ne parla da oltre cinquant’anni e in Europa sono ormai una realtà alquanto diffusa e sempre con soddisfazione: https://www.bolognacitta30.it/citta-30-nelmondo/.  A partire da Graz, una città austriaca di circa 300mila abitanti, che l’ha istituita da più di trent’anni, il consenso – che ovviamente non era altissimo quando fu introdotta (ma, come si sa,  i dissensi quasi sempre accompagnano le innovazioni e i cambiamenti nelle fasi iniziali) – è diventato dopo appena due anni plebiscitario. Lo stesso Parlamento Europeo, con la risoluzione del 6 ottobre 20212 approvata quasi all’unanimità, ha proposto l’introduzione del limite a trenta kilometri orari in tutte le città europee dove siano presenti zone residenziali e un elevato numero di ciclisti e pedoni. Inoltre, le Città 30 sono del tutto coerenti con quanto ha espressamente previsto il nuovo Piano Nazionale della Sicurezza Stradale 2030, approvato dal CIPESS su proposta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti: “(…) si possono sintetizzare i seguenti principi cardine di questo approccio: dove ci possono essere impatti che coinvolgono veicoli e pedoni, la velocità dovrebbe essere limitata a 30 km/h” (pag. 22); “In ambito urbano, in particolare, si propone, a valle di una revisione della gerarchizzazione delle strade, una chiara individuazione della viabilità a 50 km/h e delle zone a 30 km/h” (pag. 79).

Senza trascurare che già nel 1995 la “Direttiva per la redazione, adozione e attuazione dei Piani urbani del traffico” prevedeva la creazione di “Isole Ambientali”, comprendenti solo strade locali, interne alle maglie di viabilità principale, con velocità veicolare limitata (in genere 30 Km/h) prive del traffico motorizzato di attraversamento, finalizzate al recupero della vivibilità degli spazi urbani. Lo stesso Codice della Strada, infine, individua zone della città dove moderare la velocità e adottare una serie di accorgimenti per la sicurezza di tutti gli utenti della strada (art. 3 D.Lgs. 30/4/92, n.285), come la zona residenziale e la zona scolastica (le tante strade e piazze scolastiche che son nate in questi anni in molte città).

Un dato incontrovertibile dovrebbe spingere a ridurre la velocità in ambito urbano: il 55% dei morti nelle nostre città è dovuto a sole tre cause: eccesso di velocità, mancata precedenza ai pedoni sugli attraversamenti e guida distratta. E il teatro di tali incidenti è innanzitutto la città: il 73% degli incidenti avviene su strade urbane e il 44% delle vittime lascia la vita in incidenti in città. Un dato in controtendenza rispetto all’Europa, dove la media è il 39% (Anno 2019), mentre nella maggior parte dei casi è addirittura al disotto del 32%. Senza considerare poi che l’80% delle vittime in ambito urbano è un utente vulnerabile (50% come mobilità attiva).

Quindi ridurre la velocità a 30 km/h (è bene ricordare che per il Codice, art. 142 comma 1, nei centri abitati la velocità massima non può superare i 50 km/h, con possibilità di elevare il limite a 70 km/h solo ove le caratteristiche costruttive e funzionali lo consentano) significa ridurre drasticamente la mortalità sulle nostre strade. Infatti, in caso di investimento di un utente vulnerabile, se la velocità è pari a 30 km/h, la mortalità è residuale (accade in meno del 10% dei casi, equivale a una caduta dal primo piano); al contrario se l’investimento avviene a oltre 50 km/h, la mortalità ha una probabilità di accadimento di oltre il 50% (equivale a una caduta dal terzo piano). Se un bambino attraversa la strada all’improvviso, a 30 km/h sarà possibile evitarlo perché la distanza di arresto (reazione più frenata) sull’asciutto è di 13 metri; a cinquanta questo non sarà più possibile, perché l’arresto avverrà a distanza più che doppia (28 m). Infine, alla velocità di 30 km/h (sempre in rapporto ai 50 km/h) l’angolo di visuale del conducente raddoppia e quindi si riuscirà a vedere in tempo un ostacolo improvviso (il suddetto bambino).

Si tratta di dati che trovano conferma dall’analisi delle statistiche relative a chi ha già introdotto le Città 30, da Grenoble, a Graz, a Bruxelles. Lo studio scientifico più completo è stato però condotto a Londra per vent’anni, dal 1986 al 2006 e il risultato è stato in modo incontrovertibile il dimezzamento di morti e incidenti gravi (con risultati anche migliori per quanto riguarda i bambini).

Ma Città 30 significa anche decongestionare i centri urbani, ridurre la componente motorizzata privata, migliorare la qualità dell’aria riducendo le emissioni (CO2 e polveri sottili), ridurre il consumo di carburante a vantaggio degli stessi automobilisti,  ridurre l’impatto acustico con cali di rumorosità compresi tra i 2 e i 4 dB, ovvero una riduzione del rumore percepito stimabile fino al -50%. Gli impatti della mobilità come costi ambientali e sociali esterni nel loro complesso sono stati contabilizzati dalla Commissione Europea nell’Handbook on the external costs of transport del 2019 (dati al 2016) per l’Italia pari al 6,8% del PIL (contro il 5,7% della media UE28), dunque per 117,2 miliardi di € all’anno (841,1 miliardi per l’UE 28).

Eppure, la Città 30 è continuamente oggetto di chiacchiere da bar, di sparate sui social, di obiezioni che non trovano un riscontro oggettivo nella realtà dei fatti e nelle decine di studi scientifici sul tema e di vere e proprie “bufale”. In questi giorni poi, a seguito dell’iniziativa bolognese (https://www.bolognacitta30.it/), svoltasi con trasparenza, partecipazione, informazione e nell’assoluto rispetto delle vigenti normative e secondo le indicazioni previste dal MIT, le polemiche sono aumentate, anche  per iniziativa – non priva, come sempre, di venature populiste – di un ministro autonomista “a giorni alterni”.

Il Comune di Bologna ha ricevuto dal MIT un finanziamento di 623 mila € per progetti legati alla sicurezza stradale. Bologna è arrivata alla Città 30 dopo Cesena, che ha iniziato nel 1998, dopo Olbia, che è partita nel  2021, mentre altre città, da Parma, a Torino e a Milano ci stanno lavorando (ricordiamo che è stata presentata anche una proposta di legge “Norme per lo sviluppo delle “Città 30” e l’aumento della sicurezza stradale nei centri abitati” promossa dalle associazioni Legambiente, FIAB, Salvaiciclisti, Kyoto Club, Amodo, Clean Cities, Asvis, Fondazione Michele Scarponi: https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2023/05/Presentazioneproposta-legge-nazionale-Citta-30.pdf).

Per cercare di contrastare le tante “bufale” in campo sulle Città 30 e per fare chiarezza su un modello di mobilità sostenibile, sempre più urgente e necessario, Legambiente e Altroconsumo hanno messo a punto 2 utili documenti.

Qui il fact checking di Legambiente e Altroconsumo: https://unfakenews.legambiente.it/news/citta-30km/; https://www.altroconsumo.it/auto-e-moto/automobili/news/citta-30-pregiudizi-da-sfatare