Pubblichiamo la recensione del volume L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni che sarà presentato all’Istituto Gramsci Siciliano (Cantieri Culturali alla Zisa – via Gili 4) il prossimo venerdì (ore 17,00) su iniziativa dell’UDI Palermo: Maria Concetta Sala e Mariella Pasinati ne discuteranno con Chiara Zamboni coautrice del libro_
La verità dell’esperienza femminile singolare è il sostrato da cui germogliano gli scritti raccolti nel libro L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni (Mimesis, 2023) della comunità filosofica femminile Diotima, nata all’Università di Verona nel 1983. Lo cura una delle fondatrici di questa comunità, Chiara Zamboni, la quale nel saggio introduttivo ne mette a fuoco la genesi e il nucleo centrale: le domande intorno ai bisogni irrinunciabili poste nel seminario del 2021 sono scaturite in prima battuta dai vissuti nel contesto della diffusione del virus della pandemia e in seguito al periodo di clausura; da un lato esse hanno influito su una condizione esistenziale di per sé poco sopportabile producendo malessere, disagio e angoscia per via dell’impossibilità di rispondere adeguatamente ai bisogni vitali, e dall’altro lato hanno dischiuso prospettive nuove più o meno gioiose grazie alla possibilità pur coatta di arrestarsi presso di sé, di sostare nell’interstizio tra il sentire un bisogno e acquisirne la mancata soddisfazione, e di non affannarsi a colmarlo nel corso della sosta. In altre parole, mi pare che l’imposizione del confinamento con la privazione di relazioni in presenza e la solitudine abbiano dato luogo in alcuni casi a una sofferenza muta deleteria e in altri casi alla realizzazione di forme di creatività sostenute dall’energia di un desiderio non finalizzato e senza oggetto.
Il libro ci riporta pertanto all’esperienza femminile del contagio e dei suoi effetti facendo memoria di ciò che è capitato e elaborando le questioni intorno ai bisogni che da essa sono emerse e che sono state repentinamente rimosse una volta chiusasi la fase della pandemia – questioni che sono così enucleate da Chiara Zamboni nell’incipit dell’Introduzione: «qual è la radice dei bisogni vitali? Come imparare dall’esperienza dei bisogni, sostando in essi senza tradurli subito nella loro soddisfazione, con il pericolo di svuotarli della loro potenza generativa? Come distinguerli da quelli indotti? Quale rapporto con il desiderio e con il piacere? Che connessione c’è tra i bisogni degli esseri umani e quelli di tutti gli esseri viventi e non viventi?» (p. 7). Questioni dunque che possono apparire complesse ma che non sono tali se ripercorriamo il vissuto di quel periodo alla luce dell’oggi, gravato ulteriormente dai disastri delle guerre, e se facciamo tesoro di ciò che abbiamo imparato dalle nostre esperienze personali e di quanto possiamo trarre sia dalla narrazione delle diverse esperienze presenti nei testi del libro sia dalla meditazione sui punti di vista che da esse affiorano.
I bisogni sono al centro di ogni rivendicazione sociale e hanno a che vedere con i diritti; e sul tema dei bisogni, come sappiamo, c’è una lunga tradizione di pensiero (da Kant a Marx, per fare qualche nome) che qui non posso ricostruire; mi preme però puntualizzare, traendo spunto dal saggio di Wanda Tommasi dal bel titolo Effetto notte, la posizione di Simone Weil e quella di Agnes Heller. Nell’opera La prima radice la filosofa francese fa discendere non dalla nozione di diritto, che è sempre legato a condizioni date, bensì dalla nozione di obbligo – che è incondizionato, e che concerne il rispetto di ogni essere umano in quanto tale, nella sua interezza – l’enumerazione dei bisogni terrestri vitali connessi alla vita fisica (il nutrimento, il sonno, il calore, la protezione contro la violenza, la casa, il vestiario, l’igiene, le cure mediche) e alla vita morale (l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità, la sicurezza, il rischio…). La filosofa ungherese distingue dal canto suo tra bisogni quantitativi, consistenti nel soddisfacimento di beni materiali, e bisogni qualitativi afferenti beni non misurabili né mercificabili; a quest’ultimi da lei denominati bisogni radicali perché connaturati all’essere umano (si tratta dei bisogni d’introspezione, di amicizia, di amore, di gioco, di convivialità) viene attribuita la capacità potenziale di far collassare il sistema capitalistico.
Grazie al pensiero della differenza sessuale il tema del desiderio, ritenuto vitale perché si e ci colloca in un orizzonte di libertà, ha assunto piena centralità nelle relazioni tra donne e ha originato fra l’altro pratiche che «hanno puntato sulla mediazione femminile come leva per far sì che il desiderio di una donna si iscriva nel sociale e nella politica evitando gli scogli opposti, entrambi paralizzanti, dell’estraneità femminile e dell’omologazione all’uomo» – scrive Tommasi ( corsivo mio, p.17). L’autrice sottolinea che si dà tuttavia la possibilità di colmare la distanza fra bisogni e desiderio allorquando un desiderio profondo venga percepito nella sua profondità tanto da innescare non solo una trasformazione del soggetto desiderante ma anche una permutazione che ne fa un bisogno irrinunciabile. A questo proposito basta pensare al desiderio di giustizia di Ilaria Cucchi, trasformatosi in bisogno irrinunciabile di giustizia, «che l’ha spinta a lottare per dieci anni per ottenere finalmente giustizia per suo fratello, e anche verità sulla sua tragica sorte» (p. 29).
Su questo si sofferma per l’appunto lo scritto Quando il desiderio si trasforma in bisogno radicale di Anna Maria Piussi, che nelle vicissitudini di cui racconta a proposito di malattia, rapporti con i medici e efficacia o inefficacia terapeutica si trova a deviare dalle strade prevedibili e previste spinta non da autosufficienza o saccenteria o arroganza, non da volontà di potenza o delirio di onnipotenza, ma da uno sbilanciamento prodotto da uno «slancio desiderante» (p. 78) – a sua volta scatenato originariamente dall’angoscia e trasformato nel corso delle peregrinazioni da un medico curante all’altro in bisogno radicale ad opera di una verità soggettiva. I sommovimenti avviati dal desiderio che in fedeltà al sentire soggettivo si è trasformato in un bisogno radicale hanno dato come esito anche nel suo caso un’azione appropriata secondo giustezza, un’azione che non cancella il rapporto con il corpo e con la realtà e che ridà vigore alla fiducia nelle relazioni umane. Sullo sbilanciamento attivato dal desiderio si sofferma anche Giovanna Borrello nella sezione del suo contributo relativa al «Lockdown: la scoperta di un bisogno radicato nel presente», cogliendo nel desiderio non solo la difficoltà di trovare un equilibrio tra ciò che si sente nella propria interiorità e ciò che è fuori di sé ma anche la fatica di fermarsi in un passaggio tra stasi e movimento (p.90).
Maria-Milagros Rivera Garretas perora Il bisogno di sentire piacere in quanto «bisogno della vita, della vita vissuta, del vivere, del vivere umanamente, dell’umano più umano, della vita come unica insistenza» (p. 51), traslato in termini di «un irrinunciabile» strettamente connesso al piacere femminile «di concepire corpi e concetti senza coito né fallo» (pp. 56 sgg.). Piacere femminile assunto come «Mistero che custodisce e garantisce l’integrità del corpo di una donna o del suo piacere proprio, un’integrità e un piacere che storicamente sono stati poco rispettati da molti uomini, non tutti, che tendevano a frammentare il corpo femminile per colonizzarlo e possederlo» (p. 60). La perorazione si conclude con un invito rivolto agli uomini affinché si interroghino sulla propria sessualità liberandola dalle tracce patriarcali e maschiliste e confidando nella tenerezza e nella sensibilità nei confronti di «Amore come origine e Dama» (p. 60).
La pandemia ha salvato la sua vita – confessa Maria Josefa Gil Mendoza in Non tornare a dormire: «Tutto a un tratto, mi sono trovata in un altro tempo, più dilatato, più profondo e consistente, più intimo. Nella solitudine della mia casa me ne sono riappropriata un po’ alla volta. Forse è stato il tempo ad appropriarsi di me. Ritrovando un mio tempo qualcosa è accaduto nello spazio, che sembrava si materializzasse per la prima volta, con le sue forme, vuoti e pieni. Sono le coordinate tempo spazio a darci un’esistenza e io ho sentito come se qualcosa scendesse, prendesse terra. Mi sono sentita il corpo. Dopo tanto tempo… e ho saputo che ero salva» (pp. 64 sg.). Il silenzio le è stato maestro durante il primo confinamento rendendola disponibile ad aprirsi a ciò che accadeva; poi nel settembre del 2020 lei è tornata a scuola e ha sentito in pieno l’irrigidimento dell’istituzione scolastica e di chi ci lavora, ma ha continuato a intravedere il varco tra un prima e un dopo pandemia, tra un mondo che vuole tornare alla cosiddetta normalità e un mondo che invita a «scendere in profondità […], sostare nei vuoti lasciati da chi o da ciò che non c’è più, continuare a elaborare quello che ci sta accadendo per ripensare il modo e il mondo in cui viviamo» (pp. 72-73).
Il contributo di Caterina Diotti, Orientarsi con l’eco, apporta un esempio calzante per distinguere i bisogni necessari da quelli surrogati o indotti dal potere politico alla ricerca di facile consenso: durante la pandemia il sacrosanto bisogno di relazione e condivisione si era trasformato ad un certo punto nel diritto supposto inalienabile di andare al bar o al ristorante, come se fossero gli unici luoghi di socializzazione. Ma l’esempio più bello e consonante con il mio sentire è quello legato alla sua esperienza soggettiva nel rapporto con il mare: «Quando sento al telefono i miei familiari che abitano là [a Genova], è normale che dopo avermi raccontato dei parenti mi dicano “come sta il mare”, come se fosse uno zio o un cugino. “Come sta” vuol dire di che colore è, se è mosso oppure piatto, se è bigio color acciaio oppure blu intenso. Se è frizzante, con le crestine di spuma che si vedono da lontano oppure è molle e oleoso per il caldo di agosto. Quando vado a Genova, lo “andiamo a trovare”, perché non lo vedo da tanto e mi manca » (p. 48).
Mi manca e basta è il titolo del suggestivo contributo di Antonietta Potente, tratto da una lettera di Vita Sackville-West a Virginia Woolf: «mi manchi e basta, in modo piuttosto semplice, disperato, umano» – una frase che denota gli irrinunciabili bisogni (pp. 88-89) e ne svela l’intima essenza. Trovo uno straordinario accordo con Antonietta Potente: la politica delle donne non è vana quando sentiamo e gustiamo questi bisogni, quando riusciamo a coniugare il sentire amore-assenza con il sentire politico, quando comprendiamo che le pratiche politiche delle donne non hanno niente a che vedere con la politica corrente che è «una forzatura sulla natura e su tutti quegli esseri umani che sono più vicini alla natura», una politica «che inventa bisogni contrari alla natura: quello del potere, quello del sovrappiù e dell’accumulo […] la cosa più deleteria per l’umanità e il Pianeta», una politica che «disattende la vita nelle sue più intime trame [… nel] tentativo di separarci dalle profondità per poterci istruire su come muoverci» (pp. 90 e 91).
Antonietta Potente ha trovato per caso ispirazione nelle Lettere dalla danza di Isadora Duncan per suggerire il primo passo di un’altra pratica politica il più possibile affine alla danza libera di corpi liberi propugnata con audacia e ardore dalla madre della danza moderna. Per il secondo passo si è ispirata alla mistica Matilde di Magdeburgo: «… devi stare sola, non devi andare da nessuno»… Da parte delle donne che coltivano una vera passione politica sono passi irrinunciabili, come del resto lo sono l’uscire da sé secondo la massima di Teresa d’Avila, le relazioni, la cura del corpo, le connessioni inventive, la compagnia di altre donne per il piacere di stare insieme… Bisogna solo danzare questi passi irrinunciabili senza lacci e costrizioni estranei, senza lasciarsi trascinare dai venti gelidi in direzioni prestabilite, senza sprecare visioni di albe e tramonti, e soprattutto sentendo e assecondando il ritmo profondo della vita dentro di sé, intorno a sé, nell’universo intero.