Da Sergio Scandura di Radio Radicale e dall’AGI, si apprende che ” sono 108 i migranti morti e dispersi in quattro naufragi avvenuti al largo della Libia dal 26 dicembre 2023 al 3 gennaio scorsi. Lo ha affermato Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), sottolineando su X che “il 2023 si è chiuso con un totale di 2.383 morti nel Mediterraneo Centrale e purtroppo il 2024 è già iniziato con un naufragio che il 3 gennaio ha provocato 35 vittime al largo di Zwara”. La notizia è stata ripresa da pochi media, ed è passata rapidamente nel dimenticatoio, mentre l’opinione pubblica sembra sempre più assuefatta alla disumanità quotidiana che ci circonda. Come è stata rimossa la notizia della strage del 14 dicembre scorso nella pretesa zona SAR “libica”.

La dimensione globale dei crimini contro l’umanità commessi dagli Stati contro le popolazioni civili e le persone migranti sta permettendo di oscurare la strage ininterrotta che si consuma nel Mediterraneo centrale, dopo l’inasprimento delle politiche di esternalizzazione attraverso accordi con i paesi terzi per bloccare le partenze e contrastare quella che si definisce soltanto come immigrazione illegale. Non è bastato cedere alla sedicente Guardia costiera libica motovedette che non vengono utilizzate per salvare vite ma per intercettare persone in acque internazionali e deportarle sotto gli occhi di Frontex e quindi delle autorità italiane che ospitano l’agenzia europea. Abbiamo anche visto come si siano allontanate con i “porti di sbarco vessatori” ed i fermi amministrativi le navi del soccorso civile e come nel discorso pubblico si sia arrivati ad attribuire responsabilità persino ai genitori delle vittime più indifese, i tanti bambini inghiottiti dal mare, non solo davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, ma in tutto il Mediterraneo centrale, anche quando avrebbero potuto essere soccorsi tempestivamente e sbarcati in un porto sicuro.

I processi di esternalizzazione delle frontiere, con una delega sempre più ampia di poteri di interdizione a paesi terzi che non rispettano i diritti umani, partono da lontano, Già nel 2006 gli allora ministri D’Alema e Amato incontrarono il leader libico Gheddafi alla fine di un Vertice euro-africano sulle migrazioni, concordando forme ancora più drastiche di contrasto delle migrazioni irregolari, a partire dai pattugliamenti congiunti organizzati e finanziati dall’agenzia europea FRONTEX. Seguirono poi i protocolli “aggiuntivi” tra Italia e Libia nel dicembre del 2007 ed il Trattato di amicizia firmato a Bengasi da Berlusconi e Gheddafi nel 2008. E adesso si continua ad aggirare la sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo per il caso Hirsi, verificatosi nel 2009 con la Lega al Viminale.

Dopo il rafforzamento della Guardia costiera “libica”, obiettivo primario di diversi governi italiani, soprattutto a partire dal 2017, dal Memorandum d’intesa Gentiloni.Minniti, con la conseguente istituzione di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) riservata alle autorità di Tripoli, è aumentato il numero dei naufragi in una area marittima nella quale in precedenza operavano navi militari italiane (basti pensare alla missione Mare Nostrum nel 2014), navi dell’agenzia FRONTEX provenienti da diversi Stati europei, e navi delle Organizzazioni non governative, fino al 2017 in stretta sinergia con le Centrali di coordinamento (MRCC) italiane e maltesi. Negli ultimi anni FRONTEX ha limitato la sua attività al tracciamento delle imbarcazioni sulle rotte del Mediterraneo centrale accrescendo il livello di collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, in violazione delle prescrizioni operative imposte dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che vincola tutti gli assetti di Frontex, e gli Stati membri con cui collaborano, al rispetto delle Convenzioni internazionali, che dovrebbero impedire lo sbarco in porti non sicuri e la collaborazione con autorità che non garantiscono attività di ricerca e salvataggio a salvaguardia della vita umana.

Si nasconde poi la situazione di grave instabilità che ancora caratterizza la Libia, sia sulle coste del Mediterraneo che nell’area desertica al confine con i paesi del Sahel, con conseguenze imprevedibili sul fronte degli approvvigionamenti energetici. Di certo ancora oggi la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco e la sorte delle persone migranti nelle mani delle milizie e delle forze di polizia, che spesso si identificano, rimane segnata da continue estorsioni, torture, stupri. Anche dalle autorità di Bengasi nessuna garanzia di tutela contro i trattamenti disumani e le deportazioni collettive riservate alle persone migranti. Il 7 gennaio scorso, l’Agenzia anti-immigrazione illegale di Bengasi ha deportato 109 migranti sudanesi e ciadiani. L’ufficio comunicazione dell’agenzia ha dichiarato in un comunicato che si trattava di 62 migranti sudanesi e 47 ciadiani trasferiti dal centro di deportazione di Ganfouda al centro di Kufra in preparazione alla deportazione nel loro paese.

 

Alla fine dello scorso anno si è appreso che le autorità del governo provvisorio di Tripoli si stavano preparando alla istituzione di una “zona contigua” di dodici miglia (circa 20 chilometri) oltre il limite già esistente delle dodici miglia delle acque territoriali “libiche”. Rimane invece ancora oggetto di forti controversie, anche con la Grecia, il riconoscimento di zone economiche esclusive (ZEE) nelle acque del Mediterraneo centrale, ma la loro eventuale attribuzione non dovrebbe incidere sul regime dei soccorsi in mare e sulle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare.

La notizia della istituzione di una “zona contigua” da parte del governo di Tripoli contrasta con la mancata ratifica da parte della Libia della Convenzione di Montego Bay del 1984, che prevede appunto le zone contigue alle acque territoriali, e con la mancanza di un governo unitario capace di controllare l’intero teritorio libico. Dove non esistono dunque autorità marittime nazionali con una unica Centrale di coordinamento dei soccorsi (MRCC) che possano garantire attività di ricerca e salvataggio nell’intera zona SAR, che è stata dichiarata nel 2018 dal governo provvisorio libico, ed a maggior ragione all’interno delle acque territoriali (ed adesso della “zona contigua”) comunicate da Tripoli. Rimane ad orientare le motovedette libiche il tracciamento aereo dei barconi operato dall’agenzia Frontex in comunicazione con le autorità libiche ma anche con le centrali di coordinamento (MRCC) italiane e maltesi. Intanto dal governo Dbeibah, in costante contatto con Roma, come dalle autorità italiane, non arriva alcuna notizia su soccorsi in mare operati in acque “libiche”. Per i libici comunque non si tratta di attività di ricerca e salvataggio (SAR), ma soltanto di arresti di migranti illegali. E si rimuovono rapidamente le poche informazioni sugli orrori che si consumano con la complicità italiana e maltese, ma anche di Frontex, nei centri di Kufra e di Bani Walid.

Come era prevedibile, alla progressiva maggiore estensione dell’area marina affidata all’esclusivo controllo dei libici che, su evidente impulso dei governi europei con cui collaborano, hanno accresciuto le minacce nei confronti delle navi umanitarie delle ONG già operative fino al limite delle 24 miglia dalle coste libiche. Sono seguite intercettazioni violente in alto mare, con la complicità maltese, ed una serie di naufragi all’interno delle acque territoriali e della zona contigua sulle quali i libici riaffermano la loro competenza esclusiva anche per le attività di ricerca e salvataggio (SAR). Attività che quando non si sono tradotte in intercettazioni violente e successive deportazioni, hanno prodotto una serie di naufragi che sono stati nascosti all’opinione pubblica, dietro gli annunci dei successi della cooperazione con i libici nella riduzione delle partenze e dunque degli arrivi via mare in Italia.

Il ministro degli esteri Tajani ha dichiarato venerdì 5 gennaio in un comunicato stampa che “il governo italiano ha lavorato bene con Tunisia e Libia per prevenire le partenze di migranti irregolari verso l’Europa”. E ha poi aggiunto che “il governo italiano sta attualmente lavorando per concludere altri accordi con i paesi dell’Africa sub-sahariana per limitare la migrazione verso il nord del continente africano”.

Successi vantati da governi che disprezzano le persone che abbandonano in mare o nelle mani dei libici, che intimidiscono, anche con la minaccia di querele, chi continua a diffondere informazioni puntuali sulla strage nascosta che si continua a perpetrare nel Mediterraneo centrale, e che anzi si ripromettono di rafforzare, dopo le prossime elezioni europee, le loro politiche di esternalizzazione, come sta proponendo l’Italia con il cd. Piano Mattei per l’Africa. A a fine gennaio è prevista una Conferenza Italia-Africa per delineare concretamente la strategia con paesi africani.

Anche i “successi” nella collaborazione con le autorità tunisine, sempre più in crisi di legittimazione democratica, ma che stanno bloccando numerosi tentativi di traversata, sono pagati a duro prezzo dalle persone migranti intrappolate in Tunisia o costrette a ritornare in Libia, per tentare di raggiungere un paese sicuro in Europa. Mentre è aumentato anche il numero dei naufragi a nord delle coste tunisine, al limite delle acque libiche, anche per la mancanza di attività di ricerca e salvataggio da parte delle competenti autorità maltesi in una area marittima, al confine con la zona SAR dichiarata nel 2018 dal governo di Tripoli, nella quale dopo l’allontanamento delle ONG si è creato una sorta di buco nero. Dove i numerosi mezzi di servizio, come i rimorchiatori d’altura ASSO VOS TRITON, sui quali adesso dovrebbe continuare ad indagare qualche Procura in Italia, che operano nei pressi delle piattaforme offshore in acque internazionali, neppure vedono i naufraghi, o li deportano in paesi non sicuri come la Libia, se sono costretti ad imbarcarli a bordo. Lo scorso anno le autorità tunisine hanno fermato e trasferito migliaia di migranti nelle carceri libiche come documenta InfoMigrants che ha raccolto diversi resoconti di testimoni oculari e di migranti deportati.

Il presidente del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, Abdul Rahman al-Huthaili, ha affermato che l’ondata di migrazione irregolare non si fermerà finché la questione non sarà ben trattata sia nei paesi di origine che nei paesi di accoglienza. Ha aggiunto che “legittimare gli abusi contro i migranti e cooperare illimitatamente con un certo numero di paesi europei, tra cui Italia e Francia, per deportarli con la forza e in massa, non potrebbe essere una soluzione praticabile nei confronti di migranti irregolari”. Nel silenzio generale, anche nello scorso mese di dicembre si sono registrati centinaia di “sbarchi autonomi” nell’isola di Pantelleria di migranti provenienti dalla Tunisia. Sono circa 5 mila i migranti sbarcati a Pantelleria nel 2023, appena cinquecento in meno del 2022. Non si può affermare dunque che gli accordi politici ed economici con i paesi nordafricani, e con la Tunisia in particolare, abbiano comportato quella riduzione degli sbarchi che diversi esponenti dell’attuale governo italiano utilizzano come argomento di campagna elettorale.

 

Ancora una volta, come già dal Trattato di amicizia tra Italia e Libia del 2008, e poi con il Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2017, dietro la copertura della cooperazione internazionale, anche con supporto europeo, soldi contro vite umane, finanziamenti a milizie ed a poteri corrotti, pur di dimostrare agli elettorati presunti successi nel contrasto della cd. immigrazione illegale, l’unica via di fuga lasciata aperta a chi fugge dalla Libia. Un oltraggio, non solo per le vittime, ma anche al principio di realtà, quando adesso si arriva ad attribuire all’azione di governo un calo degli arrivi via mare, che deriva soltanto dalle pessime condizioni metereologiche che hanno caratterizzato l’autunno, ma che evidentemente, anche in pieno inverno, non impediscono le partenze dalle coste libiche e tunisine, anche a costo della vita.

pubblicato in contemporanea su A-dif.org