Dal 25 giugno al 15 ottobre il CRB- Collettivo Rotte Balcaniche è stato presente nella regione sud-orientale della Bulgaria, nei pressi del confine turco, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad.
Il Collettivo è un gruppo informale di attivistə che si pone il triplice obiettivo di supportare attivamente le persone in transito lungo le rotte balcaniche, di raccogliere testimonianze e produrre documentazione sulle violenze di polizia ai confini d’Europa e di mobilitare la società civile sulle tematiche legate alle migrazioni. In questo senso, negli ultimi tre anni è stato attivo in Italia, Bosnia ed Erzegovina e Serbia.
Dopo la stesura di un primo report pubblicato a inizio settembre 2023, abbiamo sentito la necessità di portare avanti la nostra “presa di parola” per continuare a raccontare la violenta opacità del regime europeo dei confini.
Il secondo report scritto dal Collettivo Rotte Balcaniche affronta prevalentemente tre tematiche. Denuncia le condizioni di vita all’interno del campo aperto di Harmanli e del transit center di Pastrogor, descrivendone le strutture e le dinamiche di potere, approfondisce il sistema di safeline gestito dal Collettivo e la relativa reazione delle forze dell’ordine e riporta il problema del riconoscimento e del rimpatrio dei cadaveri dei morti di frontiera.
Il quadro generale relativo alle strutture di Harmanli e Pastrogor è tragico; in entrambe le strutture mancano le misure igienico-sanitarie di base, il cibo fornito è scadente quando non addirittura immangiabile e sono molto diffuse malattie come la scabbia e le punture di insetti come cimici da letto. L’assistenza medica all’interno dei campi è praticamente assente e quando c’è spesso si limita a visite preliminari e sbrigative.
Il campo situato ad Harmanli è uno dei più grandi della regione; i posti totali sono 2.710 e, al 2022, gli ospiti effettivi risultavano essere 1.178. La presenza di una struttura di queste dimensioni ha generato nella comunità locale sentimenti di forte ostilità nei confronti delle persone in movimento che hanno alimentato una retorica nazionalista e fortemente razzista, concretizzatasi in manifestazioni tese a chiedere che il campo diventi chiuso, ovvero che venga impedito a coloro che lo abitano di uscire dalla struttura; al momento infatti si tratta di un campo aperto e dunque alle persone è permesso lasciare il complesso durante il giorno. Proprio a causa delle manifestazioni della destra locale l’orario di chiusura serale è stato anticipato prima alle 20 e poi alle 17.
Il transit center di Pastrogor ospita persone provenienti da “Paesi terzi sicuri”, che quindi vengono sottoposte a “procedure accelerate” la cui conclusione dovrebbe essere il rimpatrio. Tuttavia a coloro che attraversano questa struttura viene data una green card che sancisce il diritto alla permanenza nel campo per un periodo massimo di tre mesi. La realtà che abbiamo incontrato è però molto diversa: dopo massimo 14 giorni, in alcuni casi addirittura meno, le persone vengono costrette a lasciare la struttura e a vivere per strada, finché non riescono a trovare i soldi per poter riprendere il cammino verso l’Europa. A Pastrogor si trovano dunque, a differenza di quanto avviene ad Harmanli, in prevalenza uomini intenzionati a ripartire per il game il prima possibile.
Dall’immagine che ci viene restituita tramite i racconti delle persone che lo abitano, il campo risulta essere un non-luogo, uno spazio impersonale e ostile, teatro di continue violazioni dei diritti fondamentali delle persone in movimento. Le persone che incontriamo a Svilengrad, centro abitato situato vicino a Pastrogor, ci descrivono il clima intimidatorio creato dalla polizia, che ricorre alla violenza spesso in maniera arbitraria e immotivata.
Dall’inizio della nostra presenza in Bulgaria, il contesto in continua evoluzione ci ha posto di fronte alla necessità di cambiare i modi e le forme del nostro essere solidali in base alle necessità delle persone in movimento e alle pressioni di cittadinanza e forze dell’ordine.
Nel concreto, abbiamo inizialmente instaurato delle modalità di distribuzione di acqua potabile, cibo e medicinali che si sono mantenute nel corso della nostra presenza. Inoltre, dopo aver assistito alle sistematiche omissioni di soccorso attuate dalle autorità bulgare, abbiamo organizzato una safe line con l’obiettivo di rispondere alle richieste di aiuto provenienti da persone in movimento in situazioni di difficoltà durante l’attraversamento del confine turco-bulgaro, nei boschi che circondano la fence. Tramite la collaborazione di altri gruppi di attivistə abbiamo ricevuto più di 30 segnalazioni e siamo intervenutə in 22 casi, chiamando il 112 e recandoci sul posto per verificare che la polizia disponesse effettivamente le ricerche.
In questo frangente ci siamo resə conto del razzismo sistemico delle forze armate locali; abbiamo spesso interagito con agenti che hanno dimostrato pieno disinteresse nei confronti della vita delle persone in movimento, ridendo della loro condizione e prendendosi gioco del loro dolore. Noi stessə siamo spesso statə trattatə con aggressività e abbiamo subito atteggiamenti intimidatori e prevaricatori, sia durante le interazioni di persona che telefonicamente nei momenti di contatto con il 112.
Nel caso di due segnalazioni, una volta raggiunta la posizione segnalata attraverso la safe line, abbiamo trovato un corpo senza vita. Attraverso le testimonianze di chi ha perso compagnə di viaggio lungo quel confine, ci siamo presto resə conto che la foresta bulgara è un cimitero a cielo aperto e che la maggior parte delle persone che vi perdono la vita muore in silenzio e poi non viene ritrovata. Nei casi in cui i corpi vengono rinvenuti inizia un labirinto burocratico che silenziosamente si accanisce ancora sulle persone ormai senza vita, straziando le loro famiglie, spesso divise tra il loro Paese di origine e l’Europa.
I corpi delle persone in movimento, infatti, vengono portati all’obitorio di Burgas. La legge bulgara, per eseguire il riconoscimento ufficiale del cadavere richiede la presenza fisica di un familiare stretto. Il paradosso è evidente: come può un familiare raggiungere la salma di un fratello in Bulgaria per riconoscerlo, se la ragione per cui quella morte è avvenuta è proprio l’impossibilità, giuridica ed economica, di muoversi liberamente verso l’Europa?
I corpi dellə migranti rimangono quindi nell’obitorio di Burgas, senza nome e senza identità a causa di un sistema bulgaro e, soprattutto, di un contesto europeo che non solo calpesta i loro diritti mentre sono in vita, ma si rifiuta anche di dare dignità alla loro morte. Il mancato riconoscimento è l’ultimo atto di una tragedia che impedisce alle famiglie di poter piangere i propri cari o di avere la certezza che questi siano effettivamente morti, alimentando lo strazio di chi non sa se sperare o arrendersi.
Con questo report abbiamo voluto fissare le storie, i corpi e gli slanci di chi sta tentando quel valico, convintə che la lotta al fianco delle persone migranti non si fa se non lungo i loro sentieri, nei parcheggi dei campi ufficiali dove si aspetta un permesso di soggiorno, lungo i perimetri dei centri di detenzione che annullano nomi, volti e storie.
Con questo report e con la lotta che perseguiamo in Italia e lungo le rotte balcaniche, vogliamo dare una voce a tuttə coloro che sono impunemente annullatə dalla macchina tritacarne della frontiera, per restituire uno spazio spirituale a chi è scomparso nei boschi e a chi è riuscito a sfuggire alle autorità bulgare, a chi non ha superato il game e a chi invece ci è riuscito, perché ovunque nasceranno nuovi spiragli per nuove rotte, e nessun corpo in movimento si piegherà per sempre alle logiche violente del confine.