Un progetto di resistenza non violenta nella Cisgiordania occupata.
Per raggiungere Atawani da Gerusalemme Est in auto in una giornata paricolarmente sfortunata ci abbiamo messo quasi tre ore.
Il check point di Qualandia alle porte di Ramallah era stato chiuso improvvisamente sebbene in quell’autunno del duemiladiciotto la situazione in Cisgiordania fosse abbastanza tranquilla, gli echi dell’intifada molto lontani e rare le complete chiusure.
Nelle strade in uscita da Gerusalemme Est, in quelle che conducono a Ramallah, nelle lunghe code e nel traffico caotico la presenza numerosa di SUV all’americana mostravano una certa opulenza indice di una stabilità economica di una borghesia amministrativa consolidata.
Ma andando a sud, allontanandosi dalla vasta area che interessa Gerusalemme, si ha subito un brusco cambiamento e si percepisce il vero stato della maggioranza della popolazione palestinese, quella dei villaggi agricoli e pastorali.
Sulle colline morbide aride rugginose e spoglie, i villaggi palestinesi nella loro architettura tradizionale sono aggrappati ad antichi terrazzamenti e si distinguono dalle rigorose costruzioni razionali moderniste a schiera che caratterizzano gli insediamenti coloniali israeliani di più vecchia data.
Questi sono cittadelle fortificate che mostrano una volontà di separazione ed esclusività minacciosa. Occupano le sommità delle colline, sono recintate e circondate da strade sterrate come da barriere a tagliare terreni e proprietà contese.
Gli avamposti dei coloni ebraici ortodossi di ultima generazione sono insediamenti di prefabbricati bassi e danno un senso di precarietà. Illegali anche per le leggi israeliane ma tollerati e protetti.
Sono simili alle postazioni dell’IDF ma quelle militari si distinguono per le torri di osservazione e dalle recinzioni in filo spinato.
Nel villaggio palestinese di Attawani nella zona di Masafar Yatta a sud di Hebron ai margini del confine desertico con la Giordania, il conflitto insanabile che si percepisce ovunque nella geografia del territorio, diviene scontro quotidiano fra coloni israeliani e pastori palestinesi che va avanti da anni, ma è anche un esempio di resistenza non violenta di tutta una popolazione. Fra questi è protagonista la famiglia di Sami Huraini che ci ospita in questa giornata.
Sami con il padre Abed vecchio militante, i fratelli e molte altre famiglie di Masafar Yatta si batte per il riconoscimento presso le corti di giustizia israeliane al loro diritto di risiedere, coltivare e far pascolare i greggi secondo una sorta di diritto consetudinario millenario, un uso dei beni comuni e della terra presente nell’ordinamento islamico ottomano. Vigente in tutta la Palestina storica e nel Medio Oriente e ignorato dagli Inglesi prima e dagli Israeliani dopo.
A questo ora i coloni ebraici ortodossi contrappongono il diritto di proprietà trasmesso dalla tradizione biblica della Terra Promessa, una affermazione messianica irrealistica ma anche fondamento del progetto sionista.
Il territorio a sud di Hebron che confina con la Giordania è inoltre zona militare strategica e per questo motivo l’IDF abbatte costantemente gli stallaggi e gli insediamenti nelle grotte tradizionalmente rifugio dei pastori palestinesi.
Intorno ad uno di questi siti millenari è sorto il progetto di recupero di “Sumud Freedom Camp” che Sami e molti altri giovani palestinesi propongono come testimonianza e resistenza di un popolo all’occupazione israeliana.
Nell’estate duemilaventidue, coloni appoggiati dall’esercito hanno iniziato un processo di vero pogrom, un processo di pulizia etnica che si è esteso all’intera Cisgiordania. Con Gaza si va compiendo il progetto sionista iniziato nel ’47 con la nakba per l’espulsione di tutto il popolo palestinese dalle loro terre.
Qui un video con una recente intervista a Sami: