C’è una sola vera condizione perché si possa parlare di pace in Palestina ed è che Israele venga sconfitto. Naturalmente non ci riferiamo ad una sconfitta militare, quanto piuttosto ad un isolamento diplomatico e ad una sconfitta politica, ma anche “etica” e “culturale”. Un modo di passare alla gogna della storia attraverso un giudizio di condanna definitivo ed irreversibile per il genocidio portato avanti ormai da più di settant’anni nei confronti del popolo palestinese. Esattamente come è avvenuto per la Germania nazista e per il Sudafrica dell’apartheid. Capitoli chiusi (si spera) per sempre, e dai quali la stessa Germania e lo stesso Sudafrica sono rinati a nuova vita come potrebbe anche avvenire, con la sconfitta dell’attuale Stato di Israele, per le comunità ebraiche che lo costituiscono.
Se questo è il solo e vero obiettivo per ottenere la pace, allora ci sono almeno due orientamenti politici, spesso (ma non sempre) sostenuti in perfetta buona fede, che vanno ripensati con attenzione.
La prima è la posizione di chi si schiera (senza altra precisazione) per la pace, contro ogni forma di violenza e a fianco di tutte le vittime. Posizione ineccepibile sul piano di principio. Siamo tutti sostenitori della Nonviolenza (volutamente con la maiuscola). Ma la Nonviolenza è innanzitutto una postura etica ed ideale, che è nostro compito fare diventare usuale pratica politica. Se però, nell’immediato, si usa questa aspirazione come elemento discriminante per giudicare di ogni conflitto, allora il rischio è di mettere Israele ed Hamas sullo stesso piano perché entrambi usano la forza armata. Allo stesso modo si sarebbe potuto accumunare il nazismo a chi lo combatteva in armi, finendo così per giustificarlo. Oppure di fronte al razzismo del Sudafrica si sarebbe potuto dire che anche Mandela era un terrorista (per chi non lo sapesse Nelson Mandela era stato il fondatore dell’ala armata del African National Congress, il partito dei neri sudafricani).
Naturalmente si può discutere di quali siano i modi politicamente migliori, ma anche eticamente più corretti, per portare avanti la resistenza, purché sia chiaro che la resistenza palestinese è giusta e che il fine resta la sconfitta di Israele nei modi e nel senso che abbiamo detto.
L’altra questione da evitare, forse meno pericolosa, ma ugualmente fuorviante, è quella pletora di discussioni sui possibili assetti istituzionali che dovrebbero caratterizzare un futuro pacificato.
Vi sono innanzitutto i sostenitori della vecchia tesi dei due popoli in due Stati, che ovviamente si scontra con l’espansionismo israeliano e col milione e mezzo di coloni che circondano Gaza e la Cisgiordania. Vi è poi la tesi di due popoli in un solo Stato, che vede un ottimistico superamento di tutti gli scontri e gli odi accumulati in più di settant’anni di storia di soprusi. Vi è infine anche l’ipotesi di una organizzazione sociale di tipo orizzontale che ricalchi in qualche modo, l’esperienza rivoluzionaria del Confederalismo democratico attualmente portata avanti dai Curdi nel Rojava (e che, in linea di principio, è quella alla quale ci sentiamo più vicini).
In ogni caso, che il futuro sia rappresentato dalla creazione di due Stati, o di un solo Stato che appartenga a tutti, o anche da una comunità orizzontale, democratica e senza Stato, è cosa che non sta a noi decidere, e che comunque è discorso ozioso se prima non si afferma la pace.
Ma la pace ha una sola e vera condizione: la sconfitta di Israele, o meglio la sconfitta del progetto genocida di Israele.
Tutto il resto viene dopo.