Abbiamo celebrato la giornata internazionale contro la violenza di genere.
In piazza si vedevano lunghi striscioni con la scritta “dalla parte delle donne”, si sentiva urlare la rabbia e il dolore.
Personalmente non ho sentito alcuna affinità con tali manifestazioni e mi sono interrogato.
Con la consapevolezza di oggi posso affermare che la narrazione ufficiale sulla violenza di genere e il patriarcato mi sembra fuori luogo.
Partiamo da due capisaldi di questa narrazione: “contro la violenza di genere” e “dalla parte delle donne”.
Conoscete qualcuno che sia a favore della violenza di genere o non si schieri dalla parte delle donne?
Ciascuno a suo modo segue una legge, quella della Sharia o della ferita narcisistica, ad esempio.
A chi giova?
A chi giova quindi scendere in piazza o schierarsi contro o a favore?
Se ci riflettiamo è facile comprendere che ogni volta che reagiamo contro qualcosa lo facciamo per noi stessi, si tratta di una reazione emotiva, egoistica, a nostra volta seguiamo un codice interno frutto del trauma che noi stessi abbiamo subito.
Non si tratta di una scelta libera ma guidata dal bisogno catartico di liberarci dal nostro passato.
Dovremmo forse non indignarci? Non manifestare, subire in silenzio? Certo che no.
Dovremmo sapere cosa stiamo facendo, e magari chiederci, qui prodest? A chi giova? E accettare la risposta, quella vera: a me stessa/o.
Allora forse potremmo anche accorgerci che lottare contro, vuol dire fare la guerra.
Cioè comportarci secondo quel codice patriarcale che tanto condanniamo.
Avete mai provato andare contro qualcosa? Facciamo male a noi stessi e all’oggetto della nostra aggressività, generiamo una spinta uguale e contraria nella migliore delle ipotesi. A chi giova?
La vera natura del problema
Potremmo allora forse accorgerci che la soluzione di un problema prevede che si conosca la vera natura del problema?
Non chiederci perché, non cercare le cause, ma coglierne la vera natura.
Rinuncia a cercare delle soluzioni facili, l’esperienza umana è iper-complessa, un sistema è complesso e la soluzione non risiede nel sistema stesso.
Nessun problema si risolve all’interno del sistema che lo ha generato, la soluzione sta altrove ed è sempre una dissoluzione, quando si creano le condizioni giuste il problema semplicemente scompare, quando non esistono le condizioni che lo creano semplicemente non si genera più.
È la vera natura del problema connessa al patriarcato?
L’ordine patriarcale ha dominato la storia dell’umanità per millenni, nella cosiddetta cultura occidentale è presente in forme residue e più subdole, rispetto a buona parte delle altre culture del pianeta dove strenuamente persiste.
Dovremmo quindi mostrare un certo senso della storia e riconoscere gli enormi passi che il nostro modello culturale, così spesso disprezzato, ha compiuto nella direzione della parità di genere.
L’ordine patriarcale
L’ordine patriarcale nasce da uno stadio di pensiero mitologico, precedente a quello razionale, si tratta di un pensiero tribale che privilegia il forte sul debole, il vincente sul perdente, il membro della tribù sullo straniero, colui che condivide il nostro sistema di credenze sull’eretico.
Il retaggio patriarcale non ha a che fare con il genere ma con lo stadio di pensiero, con il livello evolutivo della coscienza umana.
La cultura patriarcale pervade come un meme tutti gli esseri umani indipendentemente dal genere e lo fa tanto più è negato o proiettato sull’altro.
Il fatto che abbia a che fare con l’evoluzione dell’umanità dovrebbe portarci al rispetto, si tratta di quanto di meglio siamo riusciti ad esprimere, tutti quanti, tutti insieme, attraverso sangue, sudore, lacrime.
Il patriarcato ci ha portato fino a qui, dovremmo ringraziare, raccogliere il testimone e proseguire il viaggio.
E non si prosegue il viaggio con la guerra, lottando contro, con la rabbia, la paura, il dolore o il controllo.
Faticosamente l’umanità ha raggiunto lo stadio di sviluppo del pensiero razionale, usiamolo.
La guerra non porta alla pace, stare dalla parte delle donne non vuole dire nulla, urlare la propria rabbia è un atto egoistico che lascia il tempo che trova, abbiamo fatto tanta strada è il momento della condivisione, della pace, della compassione, dell’alleanza, del perdono, della redenzione.
Stare dalla parte della vittima non ha senso se non stiamo anche dalla parte del persecutore.
La vittima subisce, prova il dolore più evidente, ma la sua anima, per chi è credente, o il suo vero Sé, se preferite non è intaccato da quella sofferenza, perché quello che ci fa davvero male sono i misfatti che compiamo non quelli che subiamo.
Il disgraziato che picchia, che violenta, che uccide si fa molto più male, un male che non svanisce, lascia cicatrici che non guariscono, pesi che lo opprimono per il resto dei suoi giorni, e oltre, per chi crede in un altrove.
La legge degli uomini punisce i reati, come è giusto che sia, ma la legge universale della coscienza (divina o laica) ama, perdona, comprende, aiuta.
La vera natura della violenza di genere è incapacità di amare, se vogliamo agire concretamente concentriamoci sulla nostra capacità di amare, sulla comprensione delle sue varie forme come: accettazione che non è rassegnazione, solidarietà che non è a senso unico, compassione che non è pena, fiducia che non è paura, pace che non è vittoria, condivisione che non è selettiva e così via.
La medicina del riconoscimento
Non si tratta di buonismo e nemmeno di religione, ma di buon senso, di consapevolezza, di risveglio, si tratta del prossimo salto evolutivo che ci attende in quanto umanità.
Una via che parte da dentro, dal contatto con sé stessi.
Potremmo iniziare con accorgerci che tutti quanti siamo malati di distanza da noi stessi, la vera natura della violenza sta nel deserto interiore che ci lascia la mancanza di contatto con noi stessi.
Uno dei demoni principali, frutto della distanza da sé stessi, è l’incapacità di stare soli come ci ricorda Winnicot (1990).
Da tale incapacità deriva qualcosa che tutti noi conosciamo moto bene, la dipendenza affettiva per la quale si si istaurano relazioni che non ci facciano sentire soli, prima di tutto.
Quando tale condizione esistenziale tipica della piccola donna e del piccolo uomo che ci abitano, raggiunge livelli parossistici diventa: impossibilità di separazione.
Come ci ricorda Recalcati (2023), quando non si riesce a superare il legame primario con le figure parentali, in genere la madre, le nostre relazioni affettive successive rimangono un prolungamento della relazione primaria. In verità, in questo caso, per via di una posizione narcisistica diffusa tutte le relazioni diventano relazioni primarie, interminabili, sia con i genitori, che con gli amici, i partners, gli oggetti.
Il narcisista instaura legami che escludono per principio la separazione dal momento che ogni separazione genererebbe un’angoscia primaria come quella dal seno materno.
Se volessimo ora per concludere richiamare in gioco il patriarcato dovremmo farlo nel suo versante complementare. La crisi del patriarcato, che stiamo giustamente vivendo, ma che attende l’affermazione del nuovo modello sovrarazionale fondato su consapevolezza, inclusività, transculturalità, spiritualità laica, condivisione, etc. ha prodotto una crisi della funzione paterna.
Il padre che dovrebbe, archetipicamente svolgere la funzione del separatore, colui che toglie l’orsacchiotto dalle braccia del bambino, per citare ancora Recalcati (2023), è il grande assente dal panorama storico-culturale odierno.
Esaurite le nostre legittime catarsi forse dovremmo accettare la sfida di sederci al suo capezzale, donne e uomini di buona volontà, per contribuire, con la medicina del riconoscimento, alla rinascita di una nuova versione 2.0 al passo con i tempi.
Riferimenti
Winnicott D. W. (1990), Dal Luogo delle Origini, Raffaello Cortina Editore