Il 9 dicembre 1948, 75 anni fa, dopo che si era perpetrata la Shoah, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a seguito di una lunga contrattazione approvò la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, anche se entrerà in vigore solamente il 12 gennaio 1951. Già l’11 dicembre 1946, l’Assemblea generale dell’ONU, approvando la risoluzione 96 (I), dette una definizione del crimine di genocidio come crimine internazionale al pari del crimine di aggressione, di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra. Visto l’importante anniversario nonché l’importante tematica e la difficile situazione storica che stiamo vivendo, abbiamo deciso di intervistare il massimo esperto di genocidi in Italia, il Professor Marcello Flores, autore tra gli altri dell’opera “Il Genocidio” (il Mulino), e dell’introduzione all’edizione italiana dell’opera “Il secolo Dei Genocidi” del Professor Bernard Bruneteau edita da il Mulino.
Come nasce e in cosa consiste la definizione di Genocidio e la Convenzione per contrastarlo?
Genocidio è una parola inventata nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, un ebreo fuggito prima in Svezia e poi negli Usa allo scoppio della guerra. La sua idea era di identificare un crimine per la soppressione di un gruppo umano, che fino a quel momento la legge poteva chiamare solo omicidio plurimo o strage. L’idea di fondo è che il genocidio rappresenta la volontà, l’intenzione di distruggere, estirpare, eliminare un gruppo umano senza altre motivazioni che quello di farlo scomparire, per motivi ideologici o religiosi, di potere o di identità collettiva da preservare impedendo la contaminazione con gruppi ritenuti inferiori. Questa idea, che viene in parte ripresa nell’atto di accusa del tribunale di Norimberga (dove però non vi è una specifica accusa di «genocidio», essendo un termine ancora non entrato nel diritto internazionale codificato), è oggetto di un lavoro collettivo voluto dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che porta il 9 dicembre 1948 all’approvazione della Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio. In questa convenzione, approvata il giorno prima che venisse approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, si definisce cos’è il genocidio (distruzione intenzionale di un gruppo nazionale, etnico, religioso in quanto tale) e quali sono gli atti che possono configurarsi come azioni di genocidio. Nella definizione approvata con la convenzione erano scomparsi i gruppi «politici» o «sociali» che Lemkin pensava potessero far parte dei gruppi da proteggere, ma che per molti giuristi non costituivano dei gruppi stabili facilmente individuabili come gruppi che si volevano distruggere «in quanto tali», perché chiunque poteva cambiare gruppo politico nel corso della sua vita come anche passare da un gruppo sociale all’altro. Lemkin aveva anche proposto di occuparsi del «genocidio culturale» di un gruppo, e cioè della distruzione delle basi culturali, linguistiche, dei monumenti e beni artistici, segni della memoria collettiva come gli archivi e le biblioteche, ma il timore soprattutto di Gran Bretagna e Francia di poter essere accusati di genocidio culturale per la loro politica coloniale – ancora all’opera in molte regioni dell’Africa e dell’Asia in quel momento – fece cadere la proposta.
Quali sono i due tribunali che si occupano del crimine di genocidio e chi compie tale crimine?
I primi due tribunali che si sono occupati di genocidio, e che per primi hanno emesso condanne «per genocidio» (o per propaganda, complicità e incoraggiamento nel genocidio) sono stati quelli creati nel 1993 (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia) e nel 1994 (International Criminal Tribunal for Rwanda), che si sono occupati dei crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimine di genocidio nella guerra civile jugoslava e nel massacro dei tutsi da parte dell’estremismo nazionalista hutu e delle milizie paramilitari che erano state formate appositamente. Ill primo di questi due tribunali stabilirà che l’azione di genocidio, nel corso delle guerre jugoslave, si è consumata solamente a Srebrenica, quando le milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladic, con la connivenza del presidente della Republika Srpska di Bosnia, Radovan Karazdic, hanno sterminato tutti i maschi del gruppo bosniaco che lì viveva o vi si era rifugiato per sfuggire alla pulizia etnica. In quel caso i principali accusati furono proprio Mladic e Karadzic che, pur se arrestati moltissimi anni dopo per la protezione offerta loro dal governo della Serbia, vennero condannati con sentenza definitiva per genocidio nel 2021 e nel 2019. In Ruanda gli accusati e poi condannati per genocidio furono molteplici categorie: dai comandanti militari dei gruppi armati che commisero le violenze ai sindaci che favorirono nelle loro cittadine l’individuazione e raccolta del gruppo tutsi da eliminare, a ministri del governo (compresa la ministra dell’educazione), a giornalisti che attraverso la radio organizzarono la propaganda per disumanizzare i tutsi e invitare a eliminarli. A essere accusati dal tribunale sono anche dirigenti politici, militari o civili che, pour potendolo, non hanno evitato il genocidio di fatto collaborando e e facilitando la sua messa in atto. Una forte decisione innovativa fu quella di considerare come elemento di genocidio ma anche di crimine contro l’umanità lo stupro di massa e la violenza sessuale a sfondo etnico e politico, che di fatto ribaltava l’idea che aveva governato le guerra per millenni – compresa la prima e la seconda guerra mondiale dove gli stupri di massa erano stati centinaia di migliaia – che lo stupro fosse una sorta di effetto secondario della guerra, non desiderabile ma in qualche modo ineliminabile e quindi neppure da sanzionare in un tribunale.
Perché molti paesi, e non mi riferisco soltanto a “democrazie autoritarie” ma anche a democrazie occidentali basti vedere gli USA con gli indiani d’America, non riescono a fare i conti con la propria storia e con i propri crimini e/o genocidi commessi ma tendono a negarli o a non parlarne?
È una caratteristica comune a tutti i paesi quella di esprimere pubblicamente in vario modo, e sempre con una voce il più possibile forte, la propria condizione di «vittima» quando è accaduto nella storia di esserlo stato; ma di non voler mai fare i conti con la propria condizione di «aggressore», «carnefice», «sterminatore» quando è stato ormai assodato dalla storia che ciò è avvenuto. I paesi totalitari o autoritari tendono da sempre a costruire un passato «ufficiale» che ha il fine di glorificare il paese, la nazione e quindi i governi che ne sono stati alla guida, escludendo dalla narrazione, oppure minimizzandoli, tutti gli atti e i comportamenti censurabili, violenti, di negazione dei diritti o di crimini commessi contro alcuni gruppi. La stessa tendenza è presente anche nelle democrazie, se si pensa alla difficoltà che hanno avuto le prime e più grandi democrazie a denunciare e far conoscere pienamente il proprio passato coloniale, compresi i crimini commessi a più riprese nei confronti di interi gruppi e popolazioni. Nelle democrazie, tuttavia, il silenzio e la rimozione non riescono a durare per sempre o troppo a lungo, ed è stato così possibile – sia pure con grande ed estremo ritardo – poter ascoltare voci che hanno voluto e cercato di ristabilire la verità storica, comprese le violenze e i crimini compiuti. Nel caso degli indiani d’America non si potrebbe parlare in senso stretto di genocidio, perché la violenza contro di loro non fu compiuta con l’«intenzione» di distruggere il gruppo, ma solo di prenderne la terra con modalità che distrussero il loro habitat e il loro modo di vivere (ad esempio distruggendo le mandrie di bisonti su cui si basava gran parte dell’economia delle tribù indiane), ma dal momento che il risultato fu la «distruzione» quasi completa di un gruppo etnico, è diventato normale riferirsi a quell’evento come un genocidio. La Gran Bretagna, ad esempio, ha ammesso formalmente solo adesso, per bocca del re Carlo, il proprio pentimento per le proprie azioni coloniali violente in Kenya, dove vennero costruiti campi di concentramento per isolare e rinchiudere chi lottava per l’indipendenza; la Francia ha anche cercato di far passare una legge sugli «effetti positivi» del colonialismo che la Corte costituzionale ha per fortuna abrogato; l’Italia ha dovuto attendere 60 anni dal fatto e 50 (il 1996, quando il governo ammise pubblicamente per la prima volta questa realtà già ampiamente conosciuta) da quando era diventata una democrazia per riconoscere che l’esercito italiano fascista aveva usato gas proibiti per bombardare i civili in Etiopia durante la guerra di annessione di quel paese al proprio impero.
Nonostante “la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio”, nella seconda metà del novecento abbiamo assistito a più di un genocidio. Cosa fare quindi per prevenire nuovi possibili genocidi?
La prevenzione del genocidio è estremamente difficile, perché nel momento che si manifesta un vero atto di genocidio vuol dire che esso è già all’opera. Prevenirlo vorrebbe dire individuare i momenti e le tappe che possono precedere un genocidio, per cercare di contrastarli, pur sapendo che non necessariamente dove quelle tappe vengono raggiunte sarà certo che occorrerà un genocidio. Studiosi di varie discipline hanno proposto numerosi metodi per riconoscere anticipatamente le realtà che potrebbero proseguire in un genocidio, individuandole in questi momenti: disumanizzazione di un gruppo umano, sua identificazione, sua esclusione attraverso norme dall’uguaglianza con gli altri cittadini, violenza e mobilitazione dei cittadini contro il gruppo, programmazione, esecuzione, cui quasi sempre consegue successivamente un tentativo di cancellazione della memoria. Purtroppo le forme di possibile intervento sulle dinamiche interne a un paese, anche quando sono violente nei confronti di un gruppo, sono molto difficili: ci vuole, infatti l’unanimità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che si può intervenire in vari modi – dalle sanzioni all’intervento militare – per fermare una violenza di tipo genocidario o che può sfociare in un genocidio. Se però guardiamo all’esperienza storica degli ultimi decenni vediamo che dove c’è stato un intervento che ha fermato un genocidio questo è avvenuto grazie a un intervento militare non autorizzato dall’Onu ma voluto da un paese vicino (l’intervento vietnamita in Cambogia nel 1979) o da una forza di liberazione (il Fronte patriottico ruandese nel 1994 per fermare il massacro dei tutsi) o da una forza militare come accadde per l’intervento Nato che pose fine alle guerre in Jugoslavia. I tentativi di creare organismi e osservatori internazionali per monitorare l’eventuale possibilità di un genocidio scorgendone gli «early warnings» (i «primi avvertimenti») si sono in genere scontrati con l’impossibilità di intervenire dentro un paese e contro il suo governo senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. In alcuni casi la pressione morale e politica, la conoscenza e la pubblicità delle violenze hanno impedito un loro diffondersi e trasformarsi in genocidio, ma in altri casi il genocidio si è consumato sotto gli occhi di una impotente pubblica opinione internazionale.