Gli infermieri italiani che lavorano nelle strutture sanitarie del Servizio Sanitario Nazionale sono soltanto 298.597, ben al di sotto della media Ocse (6,2 contro 9,9 per mille abitanti). Secondo i dati riportati dalla Fondazione Gimbe, nel 2021 264.768 infermieri sono dipendenti del SSN e 33.829 dipendenti di strutture equiparate al Ssn. E anche in questo caso il divario territoriale è evidente, con un range che varia dai 3,59 della Campania ai 6,72 del Friuli-Venezia Giulia. Il rapporto nazionale infermieri/medici tra il personale dipendente è di 2,4 nel 2021, con un range che varia dagli 1,83 della Sicilia ai 3,3 della Provincia autonoma di Bolzano. Mancano 65mila operatori e la flessione è destinata a peggiorare nel tempo.

Incrociando i dati dei pensionamenti previsti entro il 2029 (che raggiungono le 100.000 unità) con il numero insufficiente di nuovi laureati, sappiamo già con certezza che non avremo un numero sufficiente di infermieri da qui alla fine del decennio. Nel contempo sappiamo con certezza che di infermieri avremo sempre più bisogno, che soluzioni tampone non bastano e che senza una riforma strutturale del percorso formativo e dell’inquadramento giuridico-contrattuale dei nostri professionisti ogni sforzo rischia di essere vano e fine a se stesso.

I nostri infermieri sono pochi, mal pagati e costretti spesso a turni massacranti. Una situazione di crisi che spinge i più giovani ad abbandonare il nostro Paese: ogni anno tra i 3.000 e i 3.500 vanno all’estero, dove le retribuzioni sono maggiori (anche del triplo) e dove la carriera dà sbocchi di alto livello. Oggi all’estero lavorano circa 30.000 infermieri nati nel nostro Paese.

Un recente studio denominato BENE (BEnessere degli Infermieri e staffiNg sicuro negli ospEdali), realizzato dall’Università di Genova con il sostegno dalla Federazione nazionale degli infermieri (Fnopi) e appena pubblicato sulla rivista online della Federazione “L’Infermiere” ( raggiungibile a questo LINK ), evidenzia che il 59% degli infermieri negli ospedali italiani  è molto stressato a causa del proprio lavoro e il 36% sente di non avere il controllo sul proprio carico di lavoro. Il 47,3% è “privo di energia” e quasi il 40,2% denuncia un esaurimento emotivo elevato. L’esposizione a pazienti Covid-19 ha determinato un elevato livello di stress nel 46.4% degli infermieri.

Il 38.3% ha dichiarato insoddisfazione lavorativa per svariati motivi: principalmente a causa dello stipendio (77.9%) e della mancanza di opportunità di avanzamento professionale (65.2%). Il 43.4% ha descritto il proprio ambiente di lavoro come frenetico e caotico. Solo il 3.2% percepisce come “eccellente” la sicurezza del paziente nel proprio ospedale. La carenza di personale è il motivo prevalente delle cure mancate (50%). Il 59% ha riferito di discutere, con il team, strategie per evitare che gli errori si ripetano. Solo il 27,7% ha affermato che le azioni della direzione hanno la sicurezza del paziente come massima priorità.

Indipendentemente dal turno di lavoro, ogni infermiere assiste mediamente 8.1 pazienti contro uno standard indicato come ottimale di non più di 6 pazienti per ogni infermiere. In Europa, il personale infermieristico varia da 3.4 a 17.9 pazienti per infermiere e studi internazionali indicano che ogni paziente aggiuntivo rispetto al rapporto 1 a 6 è associato a un aumento del 7% della mortalità a 30 giorni in ospedale e che i costi risparmiati superano il doppio del costo aggiuntivo per il personale infermieristico.

Lo studio italiano RN4CAST@IT del 2015 aveva rilevato pre-pandemia che negli ospedali italiani l’organico medio era di 9.5 pazienti per infermiere, determinando un rischio maggiore di mortalità del 21% rispetto al rapporto un infermiere per 6 pazienti. Tra le azioni per ridurre il burnout e migliorare il benessere, gli infermieri coinvolti nello studio hanno indicato l’aumento dei livelli di organico infermieristico, permettere agli operatori sanitari di lavorare al massimo delle loro competenze professionali e migliorare la comunicazione del team.

Alla domanda sulla possibilità di lasciare entro il prossimo anno l’ospedale a causa dell’insoddisfazione lavorativa, quasi la metà degli infermieri ha risposto in modo affermativo (45.2%). Alterato anche l’equilibrio tra lavoro e vita privata: il 45.4% ritiene che il lavoro non lasci abbastanza tempo per la propria vita personale e familiare. Per quanto riguarda l’effetto “missed care” (cure mancate) per il burnout, le principali 5 cure mancate sono state: la mobilizzazione del paziente (51.6%); lo sviluppo/aggiornamento dei piani assistenziali (51.4%); l’educazione al paziente/famiglia (50.6%); l’igiene orale (50.2%); il confort per il paziente (49%). Le cure mancate, intese come qualsiasi aspetto dell’assistenza richiesta al paziente che viene omesso o ritardato, sono strettamente correlate alla sicurezza dei pazienti e alla qualità dell’assistenza.

È uno studio dirompente”, ha commentato Barbara Mangiacavalli, presidente della FNOPI, “perché mette nero su bianco, con la forza dei numeri e delle analisi statistiche, quelle percezioni che la Federazione da molti anni sta facendo pervenire nelle opportune sedi istituzionali (…). Proprio per la storica carenza di organici, gli infermieri si trovano quotidianamente a dover andare oltre i normali turni di lavoro. Certamente non è la stessa situazione riscontrabile tra i dipendenti amministrativi, scolastici o informatici. Quello che chiediamo”, chiarisce la presidente Fnopi,  “è che vengano adottate soluzioni strutturali, che ovviamente non ci portano alla soluzione domani, ma che possono costruire nell’arco temporale di 5-8 anni, una professione infermieristica 2.0 capace di invertire la tendenza”.

Qui per leggere e scaricare lo studio completo: https://www.infermiereonline.org/2023/12/13/benessereprofessionale-dellinfermiere-e-sicurezza-delle-cure-in-epoca-pandemica/