Il 29 dicembre il Sudafrica si è appellato al Tribunale dell’Aia denunciando le azioni di Israele contro il popolo palestinese a Gaza con l’accusa di stare portando avanti un genocidio ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio delle Nazioni Unite. La notizia è stata annunciata dalla stessa Corte Internazionale di Giustizia (CIG), che in un comunicato stampa ha spiegato le ragioni della denuncia del Sudafrica, e spiegato che il Paese africano ha anche compilato un’istanza per l’indicazione di misure provvisorie di protezione, richiesta a causa dell’evidente urgenza della questione. Non è la prima volta che il Sudafrica e i suoi alleati del BRICS si esprimono contro le operazioni condotte da Tel Aviv, tanto che proprio questo novembre il Parlamento sudafricano ha votato una mozione per chiudere l’ambasciata israeliana a Pretoria. Israele ha rapidamente risposto alle accuse, respingendole con crudezza; dopo tutto, nonostante i provvedimenti della CIG portino raramente a misure concrete, le sue parole possono avere una risonanza non indifferente dal punto di vista pubblico e mediatico.
Il procedimento avviato contro Israele è stato lanciato ai sensi dell’articolo IX della Convenzione sul Genocidio e del primo paragrafo dell’articolo 36 dello Statuto della Corte, i quali regolano le contese tra Paesi firmatari e le richieste di intervento della Corte. Nello specifico, il Sudafrica accusa Israele di avere violato l’articolo 3 della Convenzione, e in particolare di avere “fallito a prevenire il genocidio”, che ha portato avanti “con lo specifico intento di distruggere i palestinesi a Gaza” in quanto facenti parte di un gruppo etnico specifico. Secondo il Sudafrica Israele ha inoltre incitato pubblicamente al genocidio, e in aggiunta a ciò “ha intrapreso, sta intraprendendo e rischia di continuare a intraprendere atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza”, tutti crimini punibili secondo l’articolo 3. La mozione del Sudafrica, oltre ad accusare Tel Aviv di stare compiendo atti di genocidio, inoltra alla Corte dell’Aia la richiesta di applicazione di misure provvisorie, avanzata ai sensi dell’articolo 41 dello Statuto della Corte e degli articoli 73, 74 e 75 del regolamento della Corte, i quali definiscono le misure di previsione e forniscono loro uno stato di “priorità su tutti gli altri casi”.
Il Tribunale dell’Aia è ora chiamato a fissare una data per l’udienza e a esprimersi con celerità sulla questione. Una sua eventuale ratifica delle accuse del Sudafrica, tuttavia, difficilmente potrebbe portare a conseguenze effettive e dirette sulle azioni di Israele. La CIG non è né è a disposizione di muovere un organo di natura esecutiva che possa operare concretamente su quanto delibera. Lo si vede e lo si è visto continuamente; basti solo pensare all’ordine di misure di previsione lanciato dalla stessa Corte il 16 marzo dell’anno scorso contro la Russia, che tutto hanno fatto meno che interrompere il conflitto. Nonostante ciò, la voce della Corte di Giustizia può mettere pressione alla comunità internazionale e spingere i Paesi dell’ONU ad applicare misure più concrete di quelle finora avanzate. Non va infatti sottovalutata la portata mediatica e pubblica che le decisioni del Tribunale dell’Aia hanno quando si tratta di questioni umanitarie, e il palcoscenico di Gaza, prima vera guerra social mediatica, può fungere da ennesima prova del nove per testare la coesione del blocco ONU e la capacità di reazione dei Paesi Occidentali di fronte a una sempre più emergente ascesa dei BRICS, che hanno già condannato le azioni di Israele.
Se in caso di approvazione del provvedimento non arrivasse alcuna risposta, a perdere di credibilità non sarebbero solo i Paesi che si sono sempre schierati a fianco delle decisioni delle Nazioni Unite, ma anche la stessa CIG, che verrebbe definitivamente relegata a mero strumento di discussione diplomatica senza alcun potere effettivo, e, soprattutto, privo di una vera influenza su ciò che dovrebbe essere il suo più stretto campo di interesse. La denuncia del Sudafrica può risultare ben più importante di quel che sembra sul panorama internazionale, perché mette in gioco in primissima linea l’intera comunità occidentale, costringendola a fornire una risposta alle decisioni della CIG, cosa già fatta dai suoi rivali. Forse è anche per tale motivo che il portavoce del Ministero degli Affari Esteri israeliano Lior Haiat si è già mosso contro le accuse del Sudafrica attraverso una dichiarazione in cui ha definito la denuncia una «disgustosa diffamazione», manchevole tanto dal punto di vista legale quanto da quello fattuale. In aggiunta a ciò, Haiat ha accusato il Sudafrica di essere in combutta con Hamas, e ha ribadito che le intenzioni di Israele non sono quelle di coinvolgere i cittadini palestinesi, ma di eradicare la minaccia terroristica.
Nel frattempo, Tel Aviv non ha smesso di portare avanti la propria campagna in Palestina, allargando addirittura il conflitto e coinvolgendo, contrariamente a quanto affermato da Haiat, anche i civili. I bombardamenti nella parte meridionale della striscia si sono intensificati, specialmente nelle aree di Khan Younis e di Rafah, in cui sono stati colpite aree residenziali e infrastrutture, causando, secondo l’ONU, 187 vittime e 312 feriti solo tra i pomeriggi del 28 e del 29 dicembre. Stando a questi stessi dati, la quota totale delle vittime alle 7.00 del 29 dicembre era di almeno 21507 palestinesi, di cui il 70% donne e bambini, mentre il numero di feriti ammonta ad almeno 55915; il numero di dispersi e di sepolti nelle macerie, è invece ignoto. Intanto anche il sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’ONU Martin Griffith continua a denunciare le azioni condotte da Israele, ma Tel Aviv va avanti, e anzi non intende assolutamente fermarsi.