Dal 1968 fino ad oggi l’impiego della violenza cosiddetta rivoluzionaria ha costituito per me un rovello, un interrogativo insanabile: c’era l’America Latina coi suoi preti operai, c’era (e c’è ancora) il conflitto israelo-palestinese, e il Vietnam e la Cambogia e la rivoluzione culturale cinese e le nostre piazze. Nel 1977 in Italia il punto di domanda è diventato più dirompente e inquietante. Io ho rifiutato di reggere spranghe il 12 marzo a Roma, però ho letto e imparato tantissimo dai libri di Toni Negri: ben oltre e ben prima di optare per una qualsivoglia tattica o strategia (termini militari che non mi si confanno) nelle sue pagine veniva proposta un’analisi teorica preveggente.
Nella Crisi dello stato piano, Negri descriveva la trasformazione dell’ “operaio massa”, reso mansueto e omologato da taylorismo e fordismo, in “operaio sociale”. Profeticamente tracciava un mutamento della composizione della classe oppressa, che non era più discriminata dalla divisione fra lavoro manuale e intellettuale, ma segnata dal coinvolgimento di tutte e tutti in una produzione di plusvalore costituito da convincimenti, comportamenti, trasmissione più o meno consapevole di valori, omologazione e tacito consenso a regole non dette, una trasformazione legata alla trasformazione del capitalismo post-industriale e alla produzione immateriale. Profeticamente Negri auspicava la liberazione dal lavoro, alienato e alienante in tutte le sue forme, con il superamento di un operaismo che certo non abbandonava chi alla catena di montaggio ancora viveva e moriva, ma denunciava la complicità con l’assetto del profitto anche da parte di coloro che si credevano “assolti” perché “intellettuali”. Negri non condannò apertamente la violenza del movimento studentesco negli anni Settanta e, a posteriori, motivò questo suo atteggiamento sostenendo che nessuno ha il diritto né il potere (nelle due accezioni di Spinoza) di arrogarsi giudizi o pretendere di impartire direzioni ai grandi mutamenti sociali, i quali, del resto, non si lascerebbero mai governare: la storia scorre e occorre starci dentro (né davanti né dietro, dentro). Molto chiaramente invece si pronunciò contro il sequestro Moro e contro tutto il progetto di illusoria destabilizzazione delle Brigate Rosse.
Ma io ancora non avevo finito di studiare e imparare da lui, perché nel 2000, insieme al suo ex allievo Hardt, Il filosofo pubblicò Impero, un disegno ad ampio spettro del mondo globalizzato, nel quale veniva rintracciato un soggetto rivoluzionario nuovo, “la moltitudine”, soggetto complesso fluido in fieri, intreccio di sessi etnie lingue religioni mansioni appartenenze, intreccio di condizioni socioeconomiche culturali ideali geografiche, intreccio e basta, quindi potentissimo protagonista della storia. Di nuovo lucida speranza, di nuovo slancio, di nuovo spinta verso la trasformazione. Questa instancabile volontà di rinnovamento, questa fiducia, questa lucida preveggenza sono il lascito del maestro Negri. Fossero tutti cattivi come lui…