Dopo la pandemia il mercato del lavoro italiano ha ricominciato a crescere ma questo percorso appare “accidentato” dalle criticità strutturali che lo caratterizzano: bassi salari, scarsa produttività, poca formazione e un welfare che fatica a proteggere tutti i lavoratori, non avendo alcun paracadute per oltre 4 milioni di lavoratori “non standard” dagli autonomi, a chi è stato licenziato o è alla ricerca di un’occupazione, passando per i lavoratori della gig economy fino ai cosiddetti working poors. Sono questi alcuni degli argomenti sviluppati nel Rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) 2023, presentato nei giorni scorsi a Montecitorio.
Questi alcuni dati di sintesi: tra il 1991 e il 2022 i salari reali sono rimasti pressoché invariati con una crescita dell’1% e un divario produttività con altri Paesi G7 pari al 25,5%; il numero di assunzioni nel 2022 è stato pari a 414mila nuove attivazioni nette a fronte di 713mila nel 2021; la “forza lavoro” è sempre più anziana: ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 900 lavoratori adulti, nella PA a fronte di un lavoratore giovane ce ne sono 4 anziani; anche nel nostro Paese si assiste al fenomeno delle “grandi dimissioni”: sono oltre 3,3 milioni di persone che hanno pensato di lasciare il proprio posto di lavoro; più della metà delle imprese (54%) dichiara di aver assunto nuovo personale dipendente, ma solo il 14% grazie agli incentivi statali e per quanto riguarda la formazione continua, questa viene utilizzata solo dal 9,6% della popolazione. “Emerge un mercato del lavoro, si legge nel Rapporto, in cui la componente femminile e quella dei trentenni scontano ancora ritardi nel tasso di occupazione rispetto alle rispettive controparti.”
E’ la stagnazione salariale il tratto maggiormente preoccupante del nostro mercato del lavoto. Tra il 1991 e il 2022 – si legge nel Rapporto Inapp – i salari reali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a differenza dei Paesi dell’area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%. In particolare, nel solo 2020 (terzo nell’anno della pandemia da Covid-19) si è registrato un calo dei salari in termini reali del -4,8%. “L’arretramento dei salari italiani rispetto agli altri Paesi è chiaro anche nel ranking internazionale nell’area OCSE, si sottolinea nel Rapporto. Negli ultimi 30 anni l’Italia ha perso 13 posizioni. Nel 1992 occupava, infatti, il nono posto, posizione migliore rispetto alla media dei salari in area OCSE posta al quattordicesimo posto. Nel 2002 la sua posizione è arretrata al quattordicesimo posto ben al di sotto del media OCSE e non recuperando più nel corso degli anni la precedente posizione di vantaggio. La distanza dalla media OCSE è andata sempre più a deteriorarsi, occupando nel 2012 la ventesima posizione e nel 2022 la ventiduesima.” E la crescita dei salari reali oggi viene messa a dura prova anche dalla nuova fase di crescita dell’inflazione, determinata prevalentemente dall’incremento dei costi dei beni energetici che, a causa della forte dipendenza di larga parte dell’industria italiana dal gas come fonte di energia, ha determinato aumenti di prezzo maggiori rispetto a quanto registrato nelle altre economie europee. Questi aumenti si sono trasmessi a tutti i settori economici incidendo sul potere di acquisto delle famiglie.
Anche il numero di assunzioni nel 2022 è peggiorato rispetto al 2021: 414mila nuove attivazioni nette nel 2022 a fronte di 713mila nel 2021. Si conferma un numero di attivazioni maggiore per la componente maschile (54% rispetto al 46% delle donne) mentre la categoria dei giovani, dopo essere stata colpita profondamente dalla pandemia e dalla precedente crisi del 2008, conferma il recupero di quote occupazionali: il 26% delle attivazioni del 2022 si concentra nella fascia dai 25 ai 34 anni, a seguire le quote dei 35-44enni (21%) e dei 45-54enni (20%). A questi aspetti se ne aggiunge un altro, di carattere demografico: l’invecchiamento della popolazione e della forza lavoro. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono ben 1.900 lavoratori adulti-anziani. Il settore che di gran lunga ha i lavoratori più anziani è quello della pubblica amministrazione (3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane), seguito dal settore finanziario e assicurativo.
Un dato particolarmente interessante è rappresentato dal numero di occupati che mostrano l’intenzione di lasciare il proprio lavoro. Si stima che il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) abbia pensato di dimettersi. Tale quota è composta da un 1,1% che lo farebbe anche se ci fosse una riduzione del tenore di vita e da un 13,5% che farebbe questa scelta solo se trovasse altre entrate economiche. Le quote più alte di chi ha intenzione di dimettersi, a prescindere dalla motivazione, si osservano in corrispondenza degli occupati con un diploma (18,9%), diminuiscono col crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza. A volersi dimettere sono maggiormente gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private. Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita. Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti. “Un mercato, si sottolinea nel Rapporto, in cui si osserva un continuo ricorso a forme atipiche di lavoro e con un costante aumento del numero di lavoratori che, dopo essersi dimessi volontariamente, sono alla ricerca di una nuova occupazione. Tale evidenza sembra contraddire l’ipotesi della grande ‘fuga dal lavoro’ a favore invece della necessità/volontà di ricollocarsi in un lavoro di buona qualità.”
Le agevolazioni per le assunzioni non funzionano e le donne continuano ad essere penalizzate. Nonostante la pluralità di incentivi messi in campo, nessuno di questi istituti è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. Dunque, la composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati. Inoltre, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, contro il 32,2% degli uomini. Il ricorso agli incentivi, quindi, riproduce lo scenario noto di un’occupazione femminile minore per quantità (le donne sono il 40,9% delle assunzioni agevolate) e con minori ore lavorate. Infine, rispetto alla formazione continua si confermano i bassi livelli di partecipazione degli individui agli interventi formativi. La popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione è stata infatti nel 2022 pari al 9,6%. È una quota che denota comunque un avanzamento consistente rispetto al 2020 (+2,4%), ma che allontana l’Italia dall’Europa: nel confronto con il corrispondente valore medio europeo (11,9%), il nostro Paese perde terreno (-2,3%) rispetto all’avanzamento registrato l’anno precedente.
Qui per approfondire e scaricare il Rapporto: https://www.inapp.gov.it/pubblicazioni/rapporto/edizioni-pubblicate/rapporto-inapp-2023.