Sono di questi giorni un paio di notizie che dimostrano come il tanto temuto impatto della intelligenza artificiale (da ora IA) sui livelli occupazionali comincia ad avere i suoi effetti nefasti.
Una catena di supermercati del nord Italia sostituirà con la IA tutti i suoi cassieri che ovviamente sono stati licenziati. Quasi in contemporanea Upday, app e sito internazionale di informazione giornalistica che agisce anche nel nostro paese, ha annunciato che d’ora in avanti le notizie saranno elaborate dalla IA e che questo comporterà la chiusura della redazione milanese con il licenziamento di tre giornalisti e una poligrafica.
Il fatto che nel nostro paese le prime vittime della IA siano tipologie di lavoro così lontane e diverse tra loro come i giornalisti e i cassieri dei supermercati, ci permette di affrontare la questione con un ragionamento a tutto tondo, seppure iniziale e non esaustivo.
Per quanto riguarda la vicenda dell’agenzia di stampa, appare immediatamente evidente come, laddove si ponga una questione di scelta e di autonomia di giudizio, che implichi necessariamente anche una precisa assunzione di responsabilità personale, l’idea della macchina che sostituisce l’uomo appare pura follia.
Viene da chiedersi che cosa ci direbbe l’IA, per esempio, rispetto alla crisi palestinese. Si schiera con Israele sostenendo le politiche di genocidio dello Stato ebraico, oppure starebbe dalla parte di chi subisce? Come si può vedere, appare del tutto evidente che l’esito del “lavoro” della macchina dipende totalmente dalle impostazioni, e dunque dalle idee, di chi l’ha programmata, che deve essere considerato infine il vero soggetto responsabile.
A questo punto però si pone il problema di chi può di fatto dispone del lavoro della IA, e quindi di chi può programmarlo e indirizzarlo ideologicamente e politicamente. Il rischio è quello di una informazione di regime sempre più schierata e sempre più invasiva, capace di disporre di poderosi strumenti tecnologici, rispetto ai quali l’informazione libera si troverebbe in una condizione di grande difficoltà, con grave pregiudizio per la libertà di tutti, e in una situazione di sempre maggiore radicamento del “pensiero unico”.
La questione, come si può constatare non riguarda specificatamente, e comunque non principalmente, il lavoro, quanto piuttosto la battaglia politica per la libertà d’espressione, e la capacità di interrogarsi su quali valori è necessario costruire il nostro futuro.
La vicenda dei cassieri/e licenziati apre invece una questione diversa, che è incentrata sul dramma della perdita di posti di lavoro, specialmente nelle occupazioni meno qualificate, a causa dello sviluppo delle nuove tecnologie.
Chiariamo subito che non siamo per una difesa ad oltranza degli attuali assetti lavorativi, che ci parrebbe una pratica dal sapore vagamente neo luddista. Che la macchina lavori al posto nostro, in linea generale, non ci pare un male ma un bene. Il vero problema è il sistema capitalista che non conosce altro mezzo per distribuire la ricchezza, almeno per chi non ha altre rendite o altre fonti di profitto, se non il salario in cambio della vendita della propria forza lavoro.
In linea generale il problema che bisogna affrontare è dunque quello (difficile) della “difesa del lavoro”, in una fase in cui c’è meno bisogno di lavoro, e si pone la questione di una progressiva transizione (ancora molto lontana dal concludersi) dal “diritto al lavoro” verso il “diritto al reddito”.
Occorre essere fortemente pragmatici, e muoversi entro una direttrice che, a nostro avviso, deve tenere conto di tre obiettivi da considerare in modo simbiotico. Schematicamente: 1) riduzione dell’orario di lavoro 2) salario minimo indicizzato al costo della vita 3) diritto ad un reddito minimo garantito per tutti.
Senza entrare in troppi dettagli aggiungiamo qualche riflessione esplicativa:
- RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO (che deve attuarsi ovviamente a parità di salario) si tratta in fondo di una proposta che ha le sue radici in un vecchio slogan degli anni settanta che recitava: “lavorare meno, lavorare tutti”. È una questione di logica elementare (e di elementare senso di giustizia), il pensare che fin tanto che continuerà ad esistere un lavoro, anche residuale, inteso come sacrificio e fatica, esso debba essere ripartito equamente. Solo le esigenze di accumulazione e di rapina del capitalismo possono negare questa banale evidenza. In vari paesi esiste già un movimento che si batte per la settimana lavorativa di quattro giorni, che a questo punto (lo diciamo come semplice esempio) potrebbe essere organizzata su un massimo di 24 ore lavorative. Se vi sembrano poche sappiate che in alcuni settori industriali (per es. l’automobile) la produttività è aumentata di circa otto volte negli ultimi cinquant’anni, mentre l’orario di lavoro è praticamente rimasto lo stesso;
- SALARIO MINIMO indicizzato al costo della vita, che in pratica significa un ripristino della vecchia scala mobile. Il salario minimo, a differenza della riduzione dell’orario di lavoro, è un tema ben presente nel dibattito politico del nostro paese, anche se fortemente osteggiato dalle destre attualmente al potere. Al momento esso è considerato su base oraria (dieci euro è, per esempio, la cifra oraria prevista nella proposta di legge popolare, presentata da Unione Popolare), ma è evidente che in caso di concomitante riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, essa debba essere riconsiderata almeno su base settimanale. Sarebbe anche necessario fissare un tetto massimo per le ore di straordinario (per esempio massimo sei settimanali) fissando anche in questo caso un minimo retributivo. Naturalmente si tratta solo di ipotesi possibili e non indiscutibili, il cui senso è quello di affermare l’esigenza che debbano esistere regole fisse e non eludibili a vantaggio e a garanzia dei lavoratori;
- REDDITO MINIMO GARANTITO. La lunga transizione che porterà progressivamente (e auspicabilmente) alla “fine del lavoro”, almeno quello inteso nel senso della schiavitù nei confronti della fatica e del sacrificio, pone da subito la questione della battaglia per un reddito di base universale e incondizionato. È tuttavia possibile anche lasciare realisticamente la porta aperta a soluzioni intermedie e di fase (come è stato di recente nel nostro paese il reddito di cittadinanza, poi cancellato) in cui si affermi comunque l’idea che nessuno può essere lasciato indietro e che il reddito è semplicemente un diritto di tutti, che non può essere subordinato alla questione del lavoro.
In sostanza ed in conclusione vogliamo insistere sul fatto che una efficace difesa delle condizioni del lavoro non può prescindere oggi da una attenta considerazione di tutti gli aspetti in gioco, (orario di lavoro, salario minimo e diritto al reddito) che impongono una battaglia unitaria ma multiforme.