Si è svolto a Palermo il 14 novembre alla Casa della Cooperazione un incontro con il CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud); erano presenti, fortunosamente reduci da Gaza, Jacopo Intini e Amal Khayal, responsabile del CISS a Gaza, e l’educatore palestinese Housam Hamdouna, fondatore del REC (Remedial Education Centre), che invece a Gaza non è riuscito a rientrare
Sergio Cipolla, presidente del CISS, ne illustra brevemente la storia. La ONG ha come scopo la promozione dei diritti umani ed è attiva da 40 anni in 14 paesi del mondo; da 35 si trova nella West Bank e dal 1988 nella Striscia di Gaza. Ha vissuto quindi gli esiti della prima intifada, gli accordi di Oslo e il loro fallimento, la seconda intifada che ne è seguita e le innumerevoli aggressioni armate successive.
Prima della costruzione del muro di Netanyahu, Gaza era aperta e un terzo della sua popolazione attiva lavorava, con salari miserrimi, in Israele, prendendo un autobus alle 3 del mattino e tornando di sera dopo le 20.
Dal 2007, Hamas governa la striscia di Gaza, in seguito a regolari elezioni, mentre Fatah controlla la Cisgiordania. Dal 2007 Gaza è sotto assedio e sotto blocco. Particolarmente feroci sono stati gli attacchi israeliani del 2008 e del 2014. In totale in 17 anni, prima del 7 ottobre, ci sono stati quasi 6.000 caduti, contro i 12.000 di questi ultimi 40 giorni, poiché prima l’esercito avvertiva preventivamente la popolazione, ora no. Inoltre aerei e droni sono incessantemente presenti sui cieli palestinesi, anche sulla Cisgiordania, dove non c’è Hamas e dove, dal 7 ottobre, sono state uccise 260 persone e imprigionate 2.000, mentre prima erano ammazzate a decine solo perché andavano a raccogliere le olive…
I progetti del CISS a Gaza interessavano i diritti delle donne, la costruzione di una rete fognaria a Khan Yunis (città gemellata con Palermo), la protezione dei beni culturali (in particolare, il restauro di antichi manoscritti della moschea di Gaza), una clinica medica mobile e un primo soccorso psicologico da Nord a Sud di Gaza. Ora si è cercato di mantenere almeno una risposta di emergenza: supporto psicosociale nelle scuole per i bambini traumatizzati, danari e farina alle donne perché impastino pane per gli sfollati, una clinica mobile che opera in due cliniche per neonati e in un ospedale, danari ad una collaboratrice che ha accolto 100 profughi. Gli aiuti muovono da un ufficio in Egitto ancora funzionante, mentre il centro a Gaza ha subito un bombardamento al fosforo bianco.
Il fosforo bianco, spiega Cipolla, brucia e non smette di bruciare neppure se ti immergi nell’acqua, che dà solo un sollievo temporaneo ma non spegne il fuoco: la polvere bianca si attacca al corpo e non si estingue finché non consuma tutta la carne. Dopo la seconda guerra mondiale è stato proibito il suo uso militare e consentito solo come gas illuminante nelle zone non abitate da civili. Ma Israele continua ad usarlo. Così come impiega bombe, in teoria vietate, che esplodono sotto terra, anche oltre i dieci metri di profondità, provocando il collassamento degli edifici che impedisce l’estrazione dalle macerie dei corpi. Per questa ragione, il calcolo dei morti e dei dispersi oggi non può che essere approssimativo e riduttivo.
Ricorda Intini che l’obiettivo dichiarato sui media israeliani dall’esercito era “distruggere il più possibile”. E continua il suo racconto. “Siamo usciti dalla striscia di Gaza il primo novembre. È stata una sconfitta che deve farci riflettere sul ruolo delle associazioni umanitarie. D’ora in poi si agirà su terra bruciata. Il problema dell’acqua (per il 97% non potabile) è diventato assenza d’acqua. 154 scuole dell’ONU stanno dando rifugio a 700.000 persone. In 35.000 hanno a disposizione solo 14 bagni, privi di acqua. Ci sono file di ore da fare ogni mattina. Ovviamente si diffondono malattie respiratorie e diarrea. Non c’è farina e i forni sono stati bombardati. Scarseggia il cibo in scatola. Gli aiuti (1.100 camion) coprono solo l’area Sud al confine con l’Egitto. L’ospedale di Al Shifa, il più grande della zona, avrebbe bisogno di 8.000 litri di carburante al giorno; finora ne ha ricevuti solo 24.000. Sono morti 7 bimbi prematuri in incubatrice e 30 pazienti in terapia intensiva per mancanza di elettricità. Si opera sul pavimento, senza antibiotici né anestesia. 200 donne sono morte di cancro per non aver potuto raggiungere la Cisgiordania: in Gaza non ci sono antitumorali, ma solo cure ormonali. Gli ospedali si sono disumanizzati, anche perché ospitano sfollati a migliaia. Noi operatori, insieme a un milione di persone, abbiamo dovuto obbedire all’ordine di evacuazione al Sud. Troppi hanno perso le loro case e i contatti con i propri cari: i telefoni funzionano a intermittenza e non c’è più connessione internet (anche prima di questo attacco quella consentita era solo la 2G). I pescatori non possono allontanarsi oltre le 3 miglia marine dalla costa (nonostante le 12 pattuite). Cosa accadrà dopo? Come gestiremo questa catastrofe umanitaria? Un milione di persone resterà in strada…”.
Husam Hamdouna, che non è riuscito a rientrare a Gaza, essendo venuto a maggio per un progetto di cooperazione qui a Palermo, insiste sulla necessità di inserire gli eventi del 7 ottobre in un contesto più ampio di assedio, di cui è complice anche l’immobilismo internazionale. “Siamo rimasti sorpresi dal gesto di Hamas” e seriamente preoccupati delle conseguenze, “ma sapevamo di essere in guerra” dal 1948 o almeno dal 1967; stavolta però la reazione di Israele è stata sproporzionata.
Con voce ora indignata ora rotta dalla commozione, sciorina una quantità enorme di cifre a confronto tra il prima e il dopo lo spartiacque del 7 ottobre. Qualcuna per tutte. Entro 365 kmq. vivevano 2.400.000 persone, 14.000 per kmq.; dopo l’esodo forzato verso Sud, ce ne sono 2.000.000 in 80 kmq., ossia 30.000 per kmq. Delle 850 scuole preesistenti 246 sono state bombardate. 22 centri ospedalieri sono fuori servizio e 30.000 feriti non possono essere curati, per non parlare dei malati cronici rimasti senza terapie. I sintomi post-traumatici sono passati dal 31 al 71%.
Questa strana guerra proibisce l’operato della cooperazione internazionale e così cessano di esistere i diritti di donne e bambini, continua Hamdouna. I governi che fin qui avevano finanziato progetti di sviluppo per Gaza adesso ne supportano l’attacco: stanno distruggendo tutto il lavoro che avevano fatto. Tutto il lavoro di costruzione della speranza in una umanità più dignitosa è stato distrutto, conclude.
Amal Kayal è una bellissima donna, elegante e composta, dai lunghi capelli neri e dalla voce melodiosa, che narra, senza nascondere il pianto, a partire da sé in un inglese musicale la sua storia, in cui personale e politico sono inestricabili. “Ho 31 anni. Sono nata nel 1992, poco prima degli accordi di Oslo, ho quindi vissuto la falsa speranza di uno Stato palestinese; ho vissuto la seconda intifada. Avrei voluto essere una danzatrice del ventre o un’attrice, ma la realtà è stata più dura. Quando un bambino cresce non vedendo altro che morti, o vede il padre correre perché esplode l’auto… Quella volta gli portai dell’acqua per spegnere il fuoco. Ricordo ancora l’odore… Ho visto pezzi di carne sul muro del giardino – avevo dieci anni -sento ancora l’odore della carne bruciata…
Abbiamo dovuto lasciare la nostra casa, ma io e mamma siamo tornate tre volte, a prendere vestiti e la dentiera del nonno, che avevamo dimenticata. Avevamo preso la cuccia del cane, ma avevamo dimenticato la dentiera del nonno. Mentre eravamo in casa, hanno iniziato a sparare fosforo bianco. Io e mamma siamo corse verso la macchina. Non riuscivo a respirare per colpa del fosforo. Mia madre gridava all’autista ‘vieni a prenderci’, ma lui non riusciva a raggiungerci. Ho davvero respirato fosforo bianco e sono così fortunata da poterlo raccontare.
Lavoro per il CISS da 10 anni. Credo nella cooperazione, ma negli ultimi quaranta giorni ho perso ogni fiducia nella comunità internazionale. La prima volta che sono venuta a Palermo ero con un gruppo di quaranta donne vittime di violenza, con le quali avevamo svolto tre progetti. Ero così orgogliosa… Ora mi vergogno di cercarle: non so cosa è rimasto di quello che abbiamo fatto.
I miei nove colleghi a Gaza hanno perso la casa; io non oso chiedere se la mia è ancora in piedi. Sarebbe una domanda stupida quando la gente muore.
Qui mi sento a casa: condividiamo gli stessi valori. Ma mi uccide sapere che mio nonno, a 80 anni e con un cancro alla prostata, deve stare in piedi in coda per ore per andare in bagno. Faceva terapia ormonale, ma da quaranta giorni non riceve nessun tipo di cura.
Vi racconto di alcuni colleghi, per farvi capire la situazione.
Mohamed, 50 anni, è scappato di casa con la sua famiglia sentendo urla fuori e dopo due minuti la sua casa è stata bombardata. Hanno camminato nel buio per due ore per raggiungere l’abitazione del fratello, mentre intorno gli edifici crollavano. Ma anche la casa del fratello è stata colpita e tutti si sono spostati con una folla che cresceva. Per sei giorni non hanno mangiato altro che datteri, senz’acqua. E questo è ancora un esempio fortunato.
Un altro amico sfollato, che si è spostato verso l’ospedale di Al Shifa, dopo tre giorni di digiuno ha trovato una cipolla con un po’ di sale come unico pasto.
Ibrahim si trovava nel campo profughi di Jabalya (50.000 persone ogni kmq. per un totale di 14 kmq.). Gli occupanti israeliani hanno bombardato 30 edifici residenziali, col pretesto di avervi identificato un responsabile del 7 ottobre. Ci sono stati 400 morti. Il collega Ibrahim è stato estratto dalle macerie con la testa fracassata e subito si è messo a scavare a mani nude in cerca della sua nipotina di tre anni, ritrovata con un’anca rotta e tutte le ossa frantumate. Mi chiedo cosa sarà di lei e come vivrà dopo il cessate il fuoco. Della sua grande famiglia solo trenta sono vivi, ma feriti.
Con mio marito avremmo voluto avere dei figli, ma ora non voglio più… in questo mondo… Non potrei non spiegare a mio figlio la storia del popolo palestinese né metterlo al mondo in un mondo dove la gente vede e non fa niente.
Io amo il mio popolo e la mia terra. Anche sotto assedio vivevamo una bella vita, perché è la nostra terra e la vogliamo bella.
Bisogna che qualcuno fermi questo massacro e dovete farlo voi, che avete più potere di noi in questo momento. Continuate a supportare la Palestina, continuate a diffondere informazione corretta, perché i social sono solidali ma i giornali no.”
Scoppia un applauso interminabile.