Un racconto personale di Reza Siar, membro degli Hazara, una delle minoranze più emarginate in Afghanistan, fuggito dopo la partenza delle truppe statunitensi e la presa di potere dei Talebani.
Di primo mattino, prima che il sole sorgesse da dietro la montagna a est del mio villaggio, sentii mia madre che mi chiamava: “Reza! Reza! Svegliati. Oggi devi andare ad Ambolaq”.
Ambolaq era l’unica fonte d’acqua utile per l’irrigazione, una sorgente da cui sgorgava l’acqua sotterranea per poi fluire nel canale che veniva aperto per irrigare i campi. Una volta a settimana gli abitanti del villaggio potevano usufruirne a turno, e quel giorno toccava a noi.
Mi svegliai e pregai, ringraziando Dio per aver donato pace e prosperità alla mia famiglia. Poi, con la pala in spalla, partii in direzione di Ambolaq. Quando uscii di casa, la notte era ancora molto buia e alquanto tenebrosa. Camminavo intimorito da ciò che mi circondava e avevo paura degli animali selvatici essendo ancora molto giovane. Probabilmente all’epoca di cui parlo non avevo più di dieci anni.
Quella mattina, come ogni giorno, non appena giunto alla sorgente, aprii il canale dell’acqua. Quando tornai a casa, il sole stava già sorgendo lentamente da dietro la montagna. Mentre aspettavo che l’acqua arrivasse alle coltivazioni feci colazione e una volta finito uscii di nuovo per andare a occuparmi del campo da irrigare. Ero l’unico uomo di casa e, pur così giovane, avevo molte responsabilità di cui farmi carico.
Erano circa le 8.30 del mattino ed ero impegnato nell’irrigazione del campo di grano – il più vicino a casa mia – quando vidi dei gruppi di persone che si arrampicavano sulla montagna di fronte al nostro terreno, ben visibile dal punto in cui mi trovavo. Ero occupato con l’irrigazione, ma nello stesso tempo tenevo d’occhio quei gruppi di persone che varcavano il passo. La mia mente cercava di capire dove fosse diretta tutta quella gente, quale fosse la destinazione. Pensai che forse stavano andando a un funerale, ma scartai subito quell’ipotesi, perché se si fosse trattato di quello, anche la mia famiglia lo avrebbe saputo. Poi pensai che forse erano stati invitati da “Zawar” che era arrivato dall’Iran e che probabilmente stavano andando tutti a salutare, ma anche questo sembrava poco probabile.
Ero ancora preso da questi pensieri mentre irrigavo il raccolto, quando sentii una voce. Qualcuno mi stava chiamando: “Ehi! Ehi! Chi sta irrigando lì? Perché non rispondi? Ti ammazzo se non rispondi. Vieni subito qui.” Qualcuno continuava a lanciare insulti verso di me.
Erano degli uomini che si trovavano a due o tre chilometri di distanza da me. Non risposi e feci finta di non sentirli. Li controllavo con un occhio, mentre con l’altro continuavo a irrigare il mio campo. Vidi uno di loro venire verso di me dicendo qualcosa che non riuscii a capire. Che cosa stava dicendo? All’improvviso si mise la pistola in spalla e iniziò a correre verso di me. Sembrava un soldato al servizio del dittatore locale. Non credo che fosse un soldato per scelta, piuttosto per forza, e gli era stato imposto di radunare la gente al centro del distretto – il centro dove avevano sede i signori della guerra.
A quel punto mi ero spostato dall’altra parte del terreno, continuando a tenere d’occhio quell’uomo. Quando raggiunse il fondo della valle, nascosto momentaneamente da alcune rocce, lo persi di vista. Continuai a lavorare e notai che altri aspettavano sulla collina e mi guardavano. Ogni tanto mi gridavano dicendo: “Ehi! Ti stiamo chiamando. Perché non rispondi?”.
Dopo quasi tre minuti, l’uomo con la pistola mi raggiunse. Non si curò dell’erba (i cespugli di grano che spuntavano dal terreno prima della mietitura), li calpestò senza pietà e venne dritto verso di me. A quel punto ero paralizzato, furioso e tremante, ma continuavo a tenere gli occhi puntati sull’irrigazione del raccolto e facevo finta di non aver visto nulla. L’uomo teneva gli occhi fissi su di me e mi veniva incontro come un leone inferocito. Mi sentivo svenire dalla paura.
Non riuscivo a pensare ad altro che alle ferite che mi avrebbe inflitto e a tutta l’acqua che sarebbe stata sprecata se mi avessero trascinato via dal campo. Pensavo alle mie ossa rotte e al mio sangue, e a come i miei campi sarebbero andati in rovina, dopo sette mesi di duro lavoro.
Ad un tratto sentii uno scricchiolio sulla schiena e caddi a terra con un tonfo. Mentre cadevo di schiena vidi il volto rabbioso dell’uomo che si avvicinava per colpirmi con la pistola e prendermi a calci. Non diceva nulla, né io riuscivo a chiedergli il motivo, sapendo che anche se gli avessi chiesto qualcosa non mi avrebbe risposto.
L’uomo mi picchiò finché non si stancò e io rimasi accasciato ai suoi piedi, piangendo. Dopo essersi stancato, mi urlò: “Alzati e cammina!”. Non mi permise di cambiarmi i vestiti né di avvisare la mia famiglia che mi stavano portando via. Per fortuna non sentii molto dolore tanto ero intorpidito dalla paura. Pensavo anche al totale spreco di acqua e a come salvare il mio grano, l’unica cosa che avevo per sfamare la mia famiglia fino al prossimo raccolto. Il più delle volte, a causa del clima caldo e secco, le piante di grano non riuscivano a sopravvivere fino al ciclo successivo, ecco perché temevo di perdere il raccolto più di ogni altra cosa.
Alla fine, quando vidi che era stanco, lo implorai di liberarmi, spiegandogli l’importanza di quella giornata. Cercai di fargli capire che l’acqua arrivava ai terreni del nostro villaggio a turno, una volta alla settimana, e che quello era il mio turno, quindi se l’avessi mancato questa volta avremmo dovuto aspettare un’altra settimana fino al turno successivo. Se avessimo perso quel giorno importante e se non avessi irrigato, avremmo perso il raccolto. Ma sembrava che non sentisse la mia voce e iniziò a picchiarmi con ancora più violenza. Quando finalmente mi permise di rimettermi in piedi, riuscii a sottrarmi dalle sue mani e gridai: “Madre! Vado a Ulqan, per favore chiedi a qualcuno di irrigare la terra”.
Sentendo le mie urla, mia madre si affacciò dalla finestra di casa nostra e vide la scena. Avevo già percorso un chilometro, quando vidi mia madre che ci correva dietro, piangendo, ma non riuscivo a capire cosa dicesse a loro o a me.
Quando arrivai a Ulqan, il centro dei distretti, vidi centinaia di persone riunite lì. La maggior parte sembrava colta di sorpresa come me. C’erano persone affamate e assetate, senza cibo né acqua, allineate lungo la strada sotto il sole cocente e radunate dagli uomini armati e dalle guardie. Ero curioso di sapere perché tanta gente fosse radunata lì e per quale motivo. Alla fine chiesi a un uomo, in piedi accanto a me: “Cosa sta succedendo?”
“Credo che sia arrivato qualche pezzo grosso da Bamyan o forse da Kabul”, rispose.
C’erano diversi gruppi, a parte il pubblico che era stato portato lì per compiacere il “leader/ospite” che era arrivato da Bamyan/Kabul. La gente era divisa in quattro gruppi: il pubblico, i politici, le studentesse delle scuole femminili e gli studenti delle scuole maschili. Gli studenti, sia maschi che femmine, intonavano canzoni per dare il benvenuto all’ospite.
Ero troppo piccolo per capire il motivo per cui quegli ospiti fossero venuti e di cosa parlassero alla gente del distretto di Shahristan. Sentii solo un nome: Ustad Waezi. Un nome che è rimasto impresso nella mia memoria per sempre.
Anni dopo, quando avevo 19 anni, mi recai a Kabul per l’esame di Kankor e venni a sapere che Waezi era uno dei membri fondatori del partito Hezbe Wahdat e un importante ‘signore della guerra’ in Afghanistan. Mi tornò subito in mente quel giorno fatidico in cui fui costretto a partecipare alla più bizzarra cerimonia di benvenuto. Quello è stato uno dei momenti più spaventosi della mia infanzia, che mi fa ancora rabbrividire di paura, anche se da allora sono stato picchiato e torturato tante volte dai soldati.
L’autore:
Reza Siar proviene dalla provincia del Daikondi, una delle più remote e povere dell’Afghanistan. Fa parte della minoranza Hazara, emarginata e storicamente caratterizzata da atrocità e genocidio. Dopo un’infanzia difficilissima, Resa Siar è riuscito a trasformarsi in un raggio di speranza e determinazione. La sua evoluzione è un testamento dell’indomabilità dello spirito umano e la dimostrazione del potere dell’educazione, della perseveranza e della formidabile forza del popolo Hazara contro ogni genere di avversità. È uno dei tanti che è riuscito a scappare dall’Afghanistan ed ora vive a Auckland, in Nuova Zelanda.
Riferimenti:
Hasht-e-Subh Daily. (2022). Manifestanti di tutto il mondo chiedono di “fermare il genocidio degli Hazara”
https://8am.media/eng/2022/10/16/protesters-around-the-world-demand-to-stop-hazara-genocide/.
Mohammadi, S. & Askary, S. (2021). Perché il popolo Hazara teme il genocidio in Afghanistan?
https://www.aljazeera.com/opinions/2021/10/27/why-the-hazara-people-fear-genocide-in-afghanistan.
Paiman, N. (2020). Il genocidio degli Hazara e la discriminazione sistemica in Afghanistan. https://civilrights.org/blog/the-hazara-genocide-and-systemic-discrimination-in-afghanistan/.
Siddique, G. S. A. Gli hazara afghani temono il peggio dopo lo sfratto forzato dei talebani.
https://www.rferl.org/a/afghanistan-hazaras-taliban/31496224.html
Traduzione dall’inglese di Luisa Calè. Revisione di Daniela Bezzi.