La mattina del 13 novembre la centrale via Roma ha tenuto a battesimo la prima azione pubblica del neonato gruppo cagliaritano di Ultima Generazione, il movimento che si batte per dare una risposta alla catastrofe climatica. “Pressenza” ha posto alcune domande ad uno degli attivisti sardi, Ivano, che ha accettato di rispondere.

 

Cos’è Ultima Generazione e quali sono i suoi obiettivi?

 Ultima Generazione riunisce cittadine e cittadini preoccupati per il futuro proprio e delle persone che ci stanno attorno, ricorrendo per metodi e principi cardine alla disobbedienza civile nonviolenta. Siamo presenti in decine di città dello stato italiano, e aderiamo a una rete internazionale, A22, grazie alla quale si coordinano gli sforzi e i metodi delle varie campagne sparse in tutto il mondo, dagli USA alla Nuova Zelanda passando per Inghilterra, Francia, Germania. In questo momento, chiediamo al Governo italiano un Fondo Riparazione da 20 miliardi per i danni delle catastrofi climatiche.

Cosa ti ha spinto a far parte di questo movimento?

 Per anni ho firmato petizioni, partecipato e organizzato sit-in e cortei, anche molto partecipati, e non è cambiato nulla. I Governi, in primis quello italiano (e, nel suo piccolo, anche quello sardo), non solo non hanno fatto nulla per fermare i cambiamenti climatici, ma addirittura premono l’acceleratore dell’estinzione della specie umana (e non solo) buttando via decine di miliardi tra spese militari e sussidi all’industria dei combustibili fossili e delle armi. Di Ultima Generazione mi hanno convinto il ricorso alla disobbedienza civile nonviolenta, la struttura solida ma non rigida, l’attenzione a formare e accompagnare le persone, sia che vogliano sedersi in strada, sia che vogliano supportare in qualsiasi altro modo. Tutte cose che spero possano contagiare anche altri movimenti e campagne.

A Cagliari, il 13 novembre, avete fatto un blocco stradale, nella centrale via Roma, sventolando lo striscione con la scritta “FONDO RIPARAZIONE”. Che cosa proponete?

 Chiediamo al Governo un Fondo Riparazione di 20 miliardi di euro, che sia preventivo, permanente e solidale, per riparare subito ai danni causati dalle catastrofi climatiche, che sono e saranno sempre più frequenti e violente. Preventivo, perché i soldi devono esserci immediatamente, senza aspettare stanziamenti appositi che puntualmente risultano irrisori, promesse vuote come è successo recentemente in Emilia e 10 anni fa qua in Sardegna dopo il ciclone Cleopatra. Permanente, perché i soldi che escono devono tornare il prima possibile. Solidale, perché il fondo va finanziato attraverso il taglio delle spese militari, dei sussidi ambientalmente dannosi (cioè all’industria del fossile), degli stipendi dei manager delle aziende del fossile e dei politici. Questo eviterebbe di far ricorso a ulteriori tassazioni verso le persone povere o a tagli ai servizi pubblici quali istruzione, sanità e trasporti. Andrebbe alla radice del problema, responsabilizzando coloro che ci stanno portando al collasso ecoclimatico e livellando le ingiustizie sociali. La destinazione concreta dei soldi che escono dal Fondo dev’essere decisa in maniera partecipata dalle comunità colpite dai disastri climatici, non dal solito commissario straordinario che come abbiamo visto in Emilia alla fine non risolve nulla.

Le vostre azioni dirette sono nonviolente. Tuttavia rischiate multe, denunce penali, provvedimenti amministrativi. Puoi aggiornarci su questo aspetto?

 Sì. In tutto lo stato italiano piovono denunce e multe su attivisti, militanti, sindacalisti, giornalisti, cittadini, e ogni tanto vengono perfino inventati nuovi reati col solo scopo di reprimere il dissenso, o quantomeno addomesticarlo per renderlo inefficace. In certe aree la repressione è particolarmente violenta, pensiamo alla Val di Susa (contro il movimento NoTAV) o alla Sardegna (l’Operazione Lince, verso chi protesta contro l’occupazione militare, e i processi ai pastori per i blocchi stradali). Nel nostro caso specifico di lunedì, a tutti e sette sono stati comminati il foglio di via obbligatorio da Cagliari (divieto di farvi ritorno per 3 anni) e le denunce per blocco stradale e manifestazione non autorizzata. Misure evidentemente sproporzionate per una manifestazione pacifica. Perdipiù, io e Manuela siamo studenti dell’Università di Cagliari, quindi si sta ledendo anche il nostro diritto a studiare, oltre che a esprimere il nostro pensiero. Sappiamo di essere nel giusto e che tutto ciò è illegittimo e verrà sicuramente annullato, ma nel frattempo la macchina della repressione viola deliberatamente i nostri diritti allo scopo di seminare il terrore tra le persone. Ma la solidarietà è stata ben più forte. La solidarietà è arrivata perfino da persone e gruppi che non condividono i nostri metodi o la nostra richiesta!

Venite spesso criticati perché le vostre azioni possono creare confusione e disagi, o perché sarebbero volte solo ad attirare l’attenzione dei media? Che cosa ti senti di rispondere a queste critiche?

 Noi siamo completamente consapevoli del disagio che creiamo, e ci dispiace. Non siamo i primi né saremo gli ultimi a mettere in atto azioni di questo tipo: pensiamo ai pastori solo pochi anni fa, bloccarono la dorsale stradale sarda, la SS131, in più punti, sversandovi il frutto del loro lavoro, il latte, per ottenere un prezzo degno. Mi ricordo che allora, perlopiù, la solidarietà da parte della società sarda (e non solo) fu incondizionata, tutte e tutti ci dicevamo pastori. Bloccare le strade è in realtà un atto di protesta molto diffuso, non solo in Sardegna, si pensi al blocco avvenuto a Napoli alcuni mesi fa contro l’abolizione del Reddito di Cittadinanza. Tutte le manifestazioni potenzialmente creano disagio a qualcuno. La differenza è che quelle a cui siamo abituati (sit-in e cortei), e che creano sicuramente poco disagio, sono talmente inflazionate che difficilmente da sole fanno la differenza. Sappiamo anche che oggi è difficile portare numeri enormi di persone. Ci rimangono gli atti eclatanti: bisogna interrompere la quotidianità perché passi il messaggio. Del resto è quello che dovrebbero fare gli scioperi, che però sono stati man mano sempre più mutilati fino a perdere la loro funzione centrale: creare disagio per portare alla luce i problemi dei lavoratori e fare pressione per risolverli. Per questo insistiamo sul fatto che anche gli automobilisti, anche le forze dell’ordine dovrebbero sedersi con noi: alla prossima alluvione o siccità, chi vi ripagherà il raccolto, l’azienda, la casa?

In Sardegna le esercitazioni militari sono il primo fattore di inquinamento. Come vi collegate a questo problema?

 Come detto, una delle fonti di finanziamento per la nostra proposta di Fondo Riparazione è proprio il taglio delle spese militari. Questo avrebbe degli effetti collaterali positivi. A seconda di quanto sarà consistente questo taglio, porterebbe infatti a ridimensionare il numero e l’estensione dei poligoni militari da mantenere, o come minimo a ridurne l’operatività. Ricordo che il settore militare è responsabile dell’emissione di gas serra tanto quanto i jet privati, e i Governi non sono per nulla trasparenti sul relativo impatto climatico. Senza contare l’inquinamento di terra, acqua e aria e le conseguenze ambientali, sanitarie e socio-economiche riscontrate intorno ai poligoni del salto di Quirra, di Teulada e di Capo Frasca. La chiusura, la bonifica e la restituzione delle terre oggi appartenenti al demanio militare, oltre a costituire un minor peso per le casse dello Stato e per le spalle delle comunità, nel lungo termine farebbero risparmiare denaro alla sanità pubblica e favorirebbero lo sviluppo economico delle aree.