La parola terrorismo rimanda alla teoria e alla pratica dell’incutere terrore, ovvero ad un sistema atto a praticare tale strategia. Dal terror latino: molto più che paura, il terrore è un’emozione di paura incontrollabile per la propria sopravvivenza.
Fin dall’antichità il terrore è sempre stato un’arma usata dagli eserciti per cercare di mettere paura ai nemici, non tanto sul campo di battaglia, quanto colpendo le loro famiglie, le loro case, i loro campi coltivati, il retroterra socioeconomico, culturale, affettivo. Così è avvenuto, immutato, nei secoli.
Con l’avvento dell’aviazione e il progredire delle tecnologie, questo schema si è reso più facile, in quanto oggi è possibile colpire gli obiettivi civili anche a grande distanza, portando il terrore nel campo nemico. Ma contemporaneamente ciò ha reso più facili anche le azioni armate individuali, o di gruppi ristretti, che hanno portato stragi in molte città nel mondo. Anche le mafie e la criminalità organizzata usano lo strumento terroristico, minacciando e colpendo chi percepiscono un ostacolo ai propri piani. In numerosi paesi nel mondo, come denunciano puntualmente Amnesty International ed altre agenzie internazionali per i diritti umani, sono la polizia o milizie private a terrorizzare i propri stessi cittadini, se solo dissenzienti.
Il terrorismo è quindi implicito alla guerra, come a tutte le situazioni di sopraffazione e oppressione che, con la loro violenza, richiamano altra violenza.
L’attuale sistema comunicativo e informativo, su scala globale, utilizza i vocaboli “terrorismo”, “terroristi” con un valore semantico ristretto. Ovvero sia, etichettando con questi termini solo le azioni armate attuate da minoranze, al di fuori del volere degli Stati e dei loro apparati. Talvolta, paradossalmente, queste azioni violente neppure ci sono, o si limitano a qualche vetrata rotta. Emblematici sono i fatti del G8 a Genova nel 2001, dove i manifestanti sono stati intenzionalmente repressi con la più cruda e perfino illegale violenza. O l’assurdo per cui oggi vengono accusati di associazione terroristica dei giovani che al massimo hanno tagliato reticolati di basi militari.
Perché non si è mai parlato di terrorismo per le bombe atomiche sganciate dagli USA su Hiroshima e Nagasaki? Quale terrore più grande nella storia umana? Ma era un’azione di guerra, avevano il nulla osta, il timbro e la firma e, quindi, non erano terroristi. Commedia degli orrori. E degli errori non solo semantici, ma sostanziali: il terrore esiste sempre, ma quello legittimato dal sistema di dominio si chiama “azione militare di bonifica”.
E’ questo il termine usato da Netanyahu, leader dello Stato di Israele, per parlare del massacro della popolazione di Gaza: come se i palestinesi fossero zanzare, o addirittura semplici scorie, di cui sbarazzarsi scientificamente. Terrorismo comunicativo e psicologico, che accompagna quello politico-militare, in una guerra quasi secolare, che vive in questi giorni la sua estrema recrudescenza.
La Storia è lunga e in parte già scritta. Possiamo ripercorrerla in un’estrema sintesi, per forza di cose lacunosa e affrettata, ma che forse può aiutarci, almeno in parte, a comprendere la dinamica del conflitto.
La nascita del sionismo, negli ultimi anni dell’Ottocento, poi il 1948 con l’istituzione dello Stato di Israele e la nakba, l’esodo forzato dei palestinesi; poi la guerra dei sei giorni del 1967, che vide la sconfitta dei paesi arabi confinanti (Egitto, Siria, Giordania). Poi, tra una guerriglia e un bombardamento qua e là, c’erano allora Arafat e l’OLP, ci fu la guerra in Libano e il massacro di Sabra e Chatila nel 1982. Nel 1987 parte l’intifada palestinese. Rivolta aperta senz’armi, col solo lancio di pietre, contro i militari israeliani. I militari risposero con l’artiglieria, spezzarono braccia e fecero strage.
Ancora guerra, ma anche diplomazia: ci furono gli accordi di Oslo del 1993, che consentirono la nascita di un’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Accordi mai pienamente attuati da Israele, che ha instaurato un sistema di apartheid nei confronti dei palestinesi e, contemporaneamente ha incentivato l’insediamento di nuovi coloni israeliani nei territori della Cisgiordania e della Galilea, soffiando sul conflitto.
Gandhi, diceva già nel 1938: “La Palestina appartiene agli arabi come l’Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia appartiene ai francesi. E’ingiusto e disumano imporre agli arabi la presenza degli ebrei. Sono convinto che gli ebrei stanno agendo ingiustamente (…) Ammesso anche che loro considerino la terra di Palestina come loro patria, è ingiusto entrare in essa facendosi scudo dei fucili. Un’azione religiosa non può essere compiuta con le baionette e con le bombe (oltretutto altrui). Gli ebrei possono stabilirsi in Palestina soltanto col consenso degli arabi.” (Harijan, 26 gennaio 1938).
Un’altra manipolazione linguistica è quella di parlare di guerra fra Israele e Hamas. Israele è uno Stato, Hamas un partito politico, che amministra la Striscia di Gaza e che ha una sua organizzazione militare. Ma i palestinesi non sono solo Hamas, anche se l’odio per gli israeliani si è sedimentato durante le generazioni di soprusi e di segregazione.
Più corretto parlare di guerra fra Israele e la Palestina, riduttivo parlare di Hamas contro Netanyahu. Ma valuto distorto parlare di guerra di Israele contro Hamas. Il linguaggio è importante. Perché veicola le idee e le opinioni, facendoci ad esempio credere che le forze armate israeliane bombardino un’entità “terroristica”, appunto Hamas, e non invece i palestinesi tutti. Perché il problema è complesso e va analizzato a fondo, anche con l’aiuto preveggente di Gandhi, che ben ottantacinque anni fa scriveva: “Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della nonviolenza per resistere a quella che giustamente considerano un’aggressione del loro Paese. Ma in base ai canoni universalmente accettati del giusto e dell’ingiusto, non può essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie” (Harijan, 26 gennaio 1938).
Tutte le persone in Europa e nel mondo dovrebbero poter comprendere le radici dei conflitti. Prevenire le guerre è possibile. Fermarle, una volta messe in moto, diventa molto più difficile: la guerra israelo-palestinese dura da settantacinque anni e sembra non voler finire, ricordandoci ogni giorno che è una sconfitta dell’umanità.
L’Europa, colpevole di aver dato legittimità all’insediamento dello Stato di Israele in Palestina, senza il consenso degli abitanti autoctoni, non può che continuare ad eseguire i dettami che giungono da oltreoceano? O è la società civile, il popolo europeo della pace, che deve premere con maggior forza sui propri governi?
Perché si rigetti il terrore della guerra e delle armi, ponendo le basi per una convivenza paritaria e pacifica fra popoli diversi, sulla stessa terra.