La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1999, assume, ogni anno che passa, sempre meno il significato di una celebrazione e sempre più quello di una giornata in memoria delle vittime
Ad oggi, secondo i dati del Ministero dell’interno, sono già 102 le donne uccise nel 2023, 83 delle quali in contesti familiari o affettivi, per le quali si può parlare, quindi, di femminicidio.
Siamo già ben oltre la media di un femminicidio a settimana e visto che la conta non si ferma ma procede inarrestabile verso la fine dell’anno, la media che si sta pericolosamente avvicinando è quella di due femminicidi alla settimana, in Italia.
A fronte di questi dati non c’è proprio nulla da celebrare. C’è invece molto da dire a una classe politica che, a questo punto, deve fermarsi e ascoltare.
L’approccio politico e legislativo alla violenza di genere, che negli ultimi dieci anni ha interamente scaricato sulla giurisdizione penale il problema della violenza, non ha funzionato, perché non può funzionare.
Prima di tutto è un approccio ipocrita, che mette la maschera della repressione “senza se e senza ma” di fronte ai sintomi mentre continua a incentivare le cause della violenza maschile.
Con una mano si licenziano pene sempre più severe e con l’altra si rafforzano di continuo gli stereotipi patriarcali e familisti che nella storia, e trasversalmente in tutte le culture, sono sempre stati utilizzati per relegare le donne a un ruolo riproduttivo e assistenziale nella società e a un ruolo “passivo” nella relazione con gli uomini.
Non servono gli esempi di singole “donne al potere” (sempre la minoranza, comunque) perché costituiscono eccezioni che non modificano il quadro di realtà, se alle donne viene comunque tuttora imposta una regolamentazione sociale della maternità che le responsabilizza in modo del tutto sproporzionato rispetto ai padri, se viene continuamente messa in discussione la loro libertà di autodeterminarsi incondizionatamente nelle scelte sessuali e riproduttive, se viene loro culturalmente imposto un unico modello familiare che è sempre stato, come ci racconta il bel film di Paola Cortellesi in queste settimane nelle sale, il principale motore di affermazione e di mantenimento del patriarcato e della violenza maschile. E se continuano a essere sottratte risorse economiche allo stato sociale, così di fatto costringendo le donne a farsi carico pressoché in via esclusiva della cura dei figli, degli anziani e delle persone malate e disabili, e invalidando in concreto i proclami astratti sulla parità di genere e sull’empowerment femminile.
Altrettanto ipocrita è la “delega dell’impossibile” alla giurisdizione penale, che è di fatto stata investita di una funzione preventiva per la quale non ha gli strumenti. La giurisdizione cautelare, infatti, è stata pensata non come una vigilanza sociale diffusa, e quasi indiscriminata, su tutti i possibili contesti in cui possano maturare atti di violenza, ma per attuare forme di protezione individuale nell’ambito di situazioni in cui risulti già acclarata, secondo uno standard probatorio prossimo alla certezza necessaria per una condanna, la commissione di un reato. Quella cautelare è una soglia di intervento “spostata in avanti” rispetto a quella della prevenzione. Affidare il contrasto della violenza interamente alla cautela penale significa accettare deliberatamente che in molti casi si arriverà troppo tardi e nella maggioranza dei casi non si arriverà affatto, perché la storia di violenza si paleserà direttamente con il femminicidio, senza essere preceduta da una denuncia né dall’avvio di un iter giudiziario.
Tempistiche investigative sostanzialmente impossibili da rispettare e sistemi di avocazione automatica dei procedimenti che non hanno chiaramente altro fine se non fare da volano a procedimenti disciplinari per trovare capri espiatori, a chi sono utili?
È il circuito socioassistenziale del territorio ad avere la possibilità di “intercettare” le situazioni a rischio, facendole uscire dall’oscurità dell’abbandono e dell’omertà familiare, ma per questo servono risorse e investimenti che nessuno pare avere intenzione di fare. Le associazioni e i centri antiviolenza fanno in larghissima parte affidamento sul contributo volontario e non c’è un sistema legale e organizzato di case rifugio a cui possano accedere, coordinandosi tra loro, tutte le agenzie (socioassistenziali, sanitarie, scolastiche e giudiziarie) che si trovano, in segmenti diversi, a trattare un caso di violenza.
È poi indispensabile introdurre nel circuito scolastico canali di educazione e di sensibilizzazione sulla parità reale tra i generi. Sono necessari percorsi educativi che mettano in discussione le visioni stereotipate delle relazioni affettive, familiari e di coppia, e perseguano la promozione del rispetto per sé stessǝ e per la libera realizzazione di ogni persona con cui entriamo in relazione, a cominciare dall’autodeterminazione di genere, sessuale e riproduttiva di ogni individuǝ.
Perché se il discorso della violenza viene affrontato con i ragazzi e con le ragazze esclusivamente dal punto di vista di un immaginario vittimizzato e vittimizzante, questo immaginario continuerà a riprodursi.
Anche la magistratura necessita di un investimento importante in termini di formazione specialistica multidisciplinare e di specializzazione degli uffici giudiziari nella materia della violenza di genere. Le numerose condanne della Corte europea dei diritti umani (ormai un vero e proprio “filone italiano”) rendono evidente l’inutilità di una continua affilatura dell’arsenale repressivo se non si investe in formazione ed expertise su come questo debba essere usato, e si finisce così per avere un consistente numero di pronunce di merito che pongono alla base della valutazione della prova, e del ragionamento decisorio, argomenti che reiterano, anziché debellare, gli stereotipi sessisti in danno alle donne.
Il messaggio che Magistratura democratica vuole consegnare soprattutto alle forze parlamentari, perché questa giornata non si riduca a un inutile e stanco rituale, persino offensivo della memoria delle vittime, è che è arrivato il momento di mettere da parte la celebrazione. E di dare inizio all’ascolto.