In Italia Radio Popolare è un’istituzione, soprattutto da quando attraverso il network si ascolta in buona parte del bel Paese, ma chi è cresciuto a Milano e ha una certa età, la ricorda fin dagli anni ’70 come un importantissimo strumento di controinformazione, partecipazione, sostegno alle infinite lotte.
Dagli anni ’80, per chi sta a Milano o hinterland, c’è una voce che sembra essere rimasta intatta nel tempo. E’ un personaggio piuttosto misterioso, ma di cui si riconosce immediatamente il timbro, lo stile: si tratta di colui che fa le pubblicità locali, Maner.
E’ incredibile pensare che il tempo, per lui, sembra essersi fermato e la sua voce è identica dopo 40 anni. Sembra ancora un giovane, eppure ha quasi 70 anni; è del ’56 e lavora ancora. Abbiamo deciso di intervistarlo.
Maner, raccontaci la tua storia, a partire da questo nome…
Lo scelse mia madre, era il nome di un aviatore famoso, non conosco altri Maner. Da una parte è carino, ma non va bene, i bambini devono avere nomi come gli altri, non pensare di essere unici. Dopo il liceo ho iniziato Agraria, in quei tempi si parlava di “tecnico rosso” e io mi preparavo diligentemente al socialismo. Poi sono passato a Scienze Politiche, ho fatto metà esami e ho smesso. Ero diventato nel frattempo fotografo e ho aperto un piccolo studio. Ho conosciuto in quegli anni Saverio Angiolini, che nell’81 mi ha tirato dentro la radio. Ho iniziato a scrivere gli spot. Allora ero molto bravo.
Come funzionava l’incontro con i committenti?
C’era un agente che andava in giro per la città e proponeva la nostra pubblicità al bar, al ristorante, al negozio, all’erboristeria femminista (ricordo per loro uno dei più begli slogan che inventammo!!!), raccoglieva qualche dato sul negozio, ce lo riportava e noi scrivevamo.
Ma gli sottoponevate lo spot?
Ma figurati, si beccavano quello che facevamo! Pagavano poco, era Radio Popolare ed erano il più delle volte bellissimi! Per tantissimi anni io non ho mai fatto sentire uno spot prima. Ci divertivamo un sacco, ci lavoravamo sopra ore, eravamo precisi, davvero creativi. Ricordo, una volta, un bar ci disse che non riusciva a servire i troppi clienti che erano arrivati.
Era solo pubblicità locale? Non hai a che fare con la pubblicità nazionale?
Magari! Lì, si, pagano molto di più.
E la tua voce?
Lì si faceva tutto, come diceva Hannah Arendt “E’ la specializzazione che ci rende tutti più cattivi”. A Radio Popolare uno fa tutto: scrive, mette la voce, cerca la musica, fa la regia. Ricordo: 10mila lire al tecnico alla consolle, 15 alla voce, 30 per il testo. Ruotavamo e facevamo tutto. Eravamo un gruppo affiatato. E non avevamo nessun intralcio, i 20 o i 30 secondi, come adesso! Ricordo uno spot (che non si potrebbe fare assolutamente adesso): era una coppia di gay, vivevano insieme, uno era sotto la doccia e l’altro indugiava chiedendo dove avesse messo la crema (prodotta dall’erboristeria delle femministe di cui sopra). Era divertentissimo, faceva scompisciare e durava un minuto. E a quell’epoca, negli anni ’80, era “scandaloso”. Facevamo spot che andavano davvero “oltre”, erano come dovrebbero essere. Potrei dire “cazzoni”.
Ricordo per il tesseramento uno spot che diceva: “Comunicato numero 10: Chi non fa la tessera è un pirla!” Finito, spettacolare, è durato anni. Era l’onda lunga degli indiani metropolitani, un po’ surrealisti. E ci veniva bene.
Poi cosa è successo?
Dall’87 al ’91 ho fatto il fotografo, ma dopo sono rientrato e mi hanno ripreso nella “famiglia”. Ricordo in quegli anni che anche nella pubblicità eravamo forieri di nuove onde musicali, per il semplice fatto che dovevamo cercare musiche da luoghi lontanissimi, pur di evitare di pagare i costosissimi diritti delle musiche note.
Da allora sono sempre rimasto, con le unghie e i denti e ora ho anche un contrattino. Non sono più bravo come prima, ma anche perché non ho più gli stimoli di prima, ma va così per tutta la radio. Noi siamo belli e bravi se fuori succede qualcosa, se fuori non c’è nulla, anche la radio arranca. Oltre al fatto che moriremo con i nostri ascoltatori, o facciamo qualcosa per avere un pubblico di giovani o è un casino.
Scrivi ancora le pubblicità?
Certo, non sono più brillanti come prima, ma sono tuttora apprezzate. Mi diverto ancora.
Nelle pubblicità radiofoniche è insopportabile sentire quel frequentissimo “A SOLO…. tot euro…”
Vero, è pessimo, volgare. Pensa che io non dico mai un prezzo, una cifra. Io non do mai del tu, do del voi, siete in tanti. Il TU è una roba di merda. “Vieni con noi…” Io la ritengo offensiva.
E i tanti direttori che hai visto passare?
Ci guardavano con sospetto, ci lasciavano lì. Intoccabili. Certo ricordo su tutti Scaramucci, ruffiano, lui mi diceva che non facevo degli spot, facevo degli “editoriali”.
E le sedi?
Ricordo la prima in Pasteur! Passavo 6 o 7 ore in radio, ma tutti, per fare uno spot, come se scrivessimo un libro! Era proprio divertente. Non avevamo lacciuoli.
C’è stata una pubblicità di cui ti sei vergognato?
No, perché io, ma un po’ tutti, ci potevamo rifiutare. Le pellicce, per esempio… Ricordo una in particolare che mi rifiutai di fare: in quel tempo facevamo anche Metroregione, il notiziario locale, e ogni giorno martellavamo contro Formigoni. Arriva uno spot di “Regione Lombardia” con la chiusura che diceva “Regione Lombardia, la regione del fare!”. Io sono andato da Serafini e gli ho detto: “Questo no, non si può…” Lui ha tergiversato un po’, ha accettato, ma quel giorno qualcosa si è rotto…
C’è da dire che Radio Popolare continua ad essere una cosa necessaria ed è brutto dirlo. Perché la radio, come mezzo di informazione, non è più quella, le persone non sono più quelle, i tempi sono cambiati. Bisognerebbe che qualcuno di questi vecchi si mettesse a fare scuola.
Ma nelle pubblicità nazionali si sente di tutto adesso: automobili, McDonald’s, carburanti, banche…
Abbiamo perso molto e soprattutto la sede di Mac Mahon costa un sacco.
Hai figli?
Si, uno. Il mestiere di genitore è difficilissimo, io non volevo farlo, ma è andata così. Lui ha 26 anni, è un giovane, non segue le mie tracce, dice che sono un “buonista” di merda. Ma io quest’uomo lo amo tanto e va bene così.
Sai che quando hai chiesto di intervistarmi credevo che fosse per la mia attività di volontario? Da tre anni insegno italiano agli immigrati, a Cologno. Mi piace un sacco. Tutto è partito da un mio amico, Ambrogio Manenti, che ha fatto il medico per l’OMS in mezzo mondo e ora è in pensione. Un vulcano. Iniziò con un ambulatorio popolare, poi il doposcuola, poi la scuola di italiano. L’associazione si chiama: “Salute senza frontiere”. Tutta gente di sinistra…
Comunque fare il volontario adesso “mi è venuto facile” c’era una predisposizione: ero comunista a 20 anni, ho sempre tenuto per gli sfigati. Devi farlo seriamente, bene, soprattutto verso di te. Devi capire come farlo. E comunque, anche qui, mi diverto, sono un po’ un giullare di mio…
Tra poco a Milano c’è il mercato del Banco di Garabombo per Natale… Ricicli qualche pubblicità degli anni passati?
Non ne posso più! Ma sai che il nome del Banco di Garabombo glielo diedi io? Avevo appena letto Manuel Scorza. Ogni anno ci vogliono 4 spot, uno all’inizio, due in mezzo e uno alla fine. Per 20 anni! 80 spot su Garabombo! E ogni volta ne devi inventare una diversa.
Comunque la tua voce è cambiata pochissimo e questo è incredibile.
Non è vero, io la conosco bene ed è cambiata, ma in effetti si è mantenuta parecchio, è una fortuna. Certo adesso mi succede di rifare, rileggere, perché col fiato non sono arrivato in fondo alla frase, prima non mi succedeva di certo. Comunque, oltre alla voce, la cosa importante è che io sia rimasto abbastanza “cazzone”.
Grazie, Maner.
Grazie a voi.