Secoli di permanenti guerre sembravano finire durante la riorganizzazione e l’unificazione delle ex potenze nella seconda metà del XIX secolo e poi nel contesto della Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, il disprezzo verso alcune di queste vecchie potenze creò lo scenario che scatenò la Seconda Guerra Mondiale, nel quale si instaurò l’ordine conosciuto fino ad oggi. Apparentemente non abbiamo imparato la lezione storica, e nel XXI secolo veniamo spinti in un labirinto di violenza senza un’uscita visibile.
Diverse manifestazioni culturali hanno cercato di dissipare i nostri basilari istinti bellicosi e di farci riflettere su eventi che non dovrebbero ripetersi nelle nostre società. L’arte utilizza molte forme espressive per attirare la nostra attenzione sui cicli della storia che sono stati particolarmente difficili in diversi contesti sociali, soprattutto quelli in cui la violenza tende a radicarsi con azione e reazione sistemiche e istituzionalizzate.
Pietre su cui dovremmo inciampare per sempre
Su innumerevoli muri e marciapiedi d’Europa troviamo le “stolpersteine”, targhe che commemorano l’orrore sofferto in centinaia di migliaia di case, fabbriche e altri spazi da cui persone piene di amore e vita, esseri umani come molti di noi, sono state strappate e deportati nei campi di concentramento e di sterminio; la maggior parte durante la Seconda Guerra Mondiale e anni prima. Questo è uno dei tanti modi in cui la cultura si è fatta strada per onorare la vita di coloro che ci hanno lasciato in modo così ingiusto e inaspettato.
Il progetto dell’artista tedesco Gunter Demnig ha dato omogeneità e carattere universale ai vari monumenti familiari che ancora oggi si trovano in tutto il continente. Adesso li vediamo di più e, anche se standardizzandoli abbiamo perso parte dell’espressione multicolore dei fiori e delle lacrime che ogni famiglia ha voluto esprimere nel suo modo particolare, sono migliaia i giovani interessati a fare pellegrinaggi e turismo con un senso storico solo per vedere gli angolini, le case e i portali dove si trovano queste targhe commemorative di 10 x 10 centimetri che sono da sempre incastonate nell’architettura stradale dell’Unione Europea.
Nonostante l’ordine e l’omogeneità presenti in quasi tutta Europa, queste “pietre della strada” (stolpersteine) hanno assunto molta importanza internazionale per il modo discreto di invitarci all’osservazione, alla riflessione e al risveglio della coscienza. Uno degli scopi di Demnig è quello di farci uscire dalla nostra meschinità quando diciamo con stupore e altre volte per pura curiosità “ne ho trovato una, un’altra e un’altra ancora”, fino a renderci conto che ce ne sono centinaia di migliaia delle vittime dell’intolleranza istituzionalizzata, che è la peggiore di tutte.
In molti casi, ci fermiamo a meditare per qualche istante su quanto è accaduto, anche estrapoliamo e riflettiamo su come potrebbe succedere attualmente in molti luoghi al mondo. Mi è capitato, ad esempio, di bussare alla porta di una di quelle case per sapere se la suddetta famiglia o i loro discendenti abitano ancora lì; mi terrorizza sapere che, nella maggior parte dei casi, sento dire “sono scomparsi tutti” o “non sono più tornati”. È lì che si gela il sangue quando questa “semplice” manifestazione artistica ha raggiunto il suo scopo di farci riflettere.
Oggi e sempre noi siamo uno di loro
Mi sento come uno di quegli zingari, comunisti, omosessuali, testimoni di Geova (l’unico ordine cristiano che si oppose al nazismo), cinesi, politici dell’opposizione, anarchici, collaboratori della resistenza e ovviamente tanti ebrei che, insomma, erano strappati dalle loro case per essere portati alla tortura, ai lavori forzati e, nella maggior parte dei casi, alla morte. Oltre al fatto di essere io un discendente diretto di sfollati a causa dell’orrore della guerra, mi sento vicino alle migliaia di vittime commemorate nella “stolpersteine” anche per l’effetto che l’arte e questa storia in particolare hanno avuto su di me.
Prendiamo coscienza dei momenti in cui siamo rimasti in silenzio di fronte all’ingiustizia e all’ignominia. In qualche modo, siamo tutti complici, almeno nel silenzio. Guardarsi in quello specchio ti porta allo stesso tempo a tante situazioni attuali che potrebbero essere molto vicine alla xenofobia istituzionalizzata e alle deportazioni sistematiche. Dobbiamo cercare con l’utilizzo di tutti i mezzi possibili di fermare l’avanzata dell’intolleranza, giusto dove l’arte rappresenta una forma di espressione che ci può aiutare e che nella maggior parte dei casi lascia un’impronta che rimane nel tempo. Ho cercato di pubblicare storie che ci facciano riflettere sul rispetto per l’ambiente e sull’integrazione culturale; non saprei se questo ci aiuterà a evitare una guerra, ma ci mette sulla strada per fornire gocce d’acqua fresche in un immenso mare che si prosciuga ogni giorno a causa dell’intolleranza.
Penso di aver reso un modesto omaggio alle vittime delle deportazioni forzate e degli esili nel capitolo “De ánimas y hebreos” (delle anime e degli ebrei) del mio libro “Cantos de tierra y vida” (spagnolo), così come nel capitolo “Caminantes” dell’altro mio libro” Doctor doctor, 100 extraños relatos“ (spagnolo); sono sensibili riflessioni che ci offrono alcune prospettive di tolleranza e inclusione. Apriamo la mente e il cuore per difendere ogni manifestazione di vita sul pianeta Terra, per quanto essa possa sembrare aliena o per quanto lontana da noi sia; Che si tratti di foreste tropicali o di un’antica cultura in pericolo, siamo tutti responsabili della loro salvaguardia. Ricordiamoci che chiunque salva una vita salva il mondo intero, dice il Talmud (Mishà 4:5).