In vista delle elezioni presidenziali, in programma dal 10 al 12 dicembre, le autorità egiziane hanno intensificato la repressione contro dissidenti e manifestanti pacifici, impedendo anche la candidatura di un esponente dell’opposizione.

Dal 1° ottobre, almeno 196 persone sono state arrestate per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate, diffusione di “notizie false” e presunti atti di terrorismo.

Il 7 novembre è iniziato il processo contro Ahmed Altantawy, il coordinatore della sua campagna elettorale Abu al-Dayyar e 21 suoi sostenitori. I primi due sono accusati di aver violato la legge 45 del 2014, che disciplina l’esercizio dei diritti politici, cospirando e incitando altre persone a diffondere materiale elettorale senza autorizzazione; per gli altri l’accusa è di aver stampato tale materiale.

Le accuse sono nate dall’appello lanciato l’8 ottobre dallo staff di Altantawy ai sostenitori affinché ponessero online la firma a sostegno della candidatura, dato che coloro che avevano cercato di farlo fisicamente presso i notai avevano incontrato difficoltà e subito intimidazioni. Il 13 ottobre Altantawy ha annunciato la rinuncia alla candidatura, denunciando l’accaduto e criticando la Commissione elettorale nazionale per non aver accolto i suoi ricorsi. Il 21 ottobre lo stesso Altantawy ha pubblicato i nomi dei 137 membri del suo comitato elettorale che erano stati arrestati nelle settimane precedenti.

Altantawy e al-Dayyar restano in libertà, gli altri 21 imputati sono in detenzione preventiva. Se condannati, tutti rischiano una multa e/o un anno di carcere e il divieto di ricoprire incarichi politici per cinque anni.

A settembre Citizen Lab ha confermato che il telefono di Altantawy era stato infettato dallo spyware Predator, con alte probabilità di un coinvolgimento governativo.

La repressione sta colpendo anche le manifestazioni di solidarietà con la Palestina, inizialmente sostenute da partiti politici e altri soggetti filo-governativi. Tuttavia, le forze di sicurezza sono intervenute non appena le proteste sono uscite dalle aree autorizzate e si sono mescolate a richieste di libertà e di giustizia sociale. Molti arresti sono avvenuti, il 20 ottobre, nei pressi dell’iconica piazza Tahrir.

Il 21 ottobre Ali Mohamed Alo Abo al-Majid, uno studente universitario, è stato arrestato nella sua abitazione di Giza ed è scomparso per una settimana prima di comparire di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato. Resta, insieme ad almeno altri 56 manifestanti, in detenzione preventiva per accuse di terrorismo, di partecipazione a riunioni non autorizzate che minacciano la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico e di vandalismo. Almeno altri sei manifestanti risultano scomparsi.

Sono stati presi di mira anche gli insegnanti. Il 15 ottobre le forze di sicurezza hanno violentemente disperso una loro protesta di fronte al ministero dell’Istruzione per contestare il nuovo obbligo, per chi si candida a impieghi nel settore pubblico, di seguire sei mesi di accademia militare. Quattordici insegnanti sono tuttora in carcere con accuse di terrorismo, diffusione di “notizie false” e uso improprio dei social media.

Un ultimo grave episodio è avvenuto il 23 ottobre, quando l’esercito ha usato proiettili veri per disperdere una manifestazione pacifica di centinaia di persone che chiedevano di poter ritornare nel Sinai settentrionale, da cui erano state sfollate con la forza nel 2014 per via di operazioni militari contro gruppi armati. Secondo la Fondazione per i diritti umani del Sinai, almeno 47 persone sono state arrestate e poste sotto inchiesta.