Secondo un affidabile sondaggio dell’Arab Barometer for Foregn Affairs realizzato il giorno prima dell’atroce e oscena strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, quasi tre quarti dei palestinesi erano favorevoli a un accordo con Israele – dunque, in qualche modo, a riconoscerne in qualche forma l’esistenza. Se fossero stati chiamati al voto, circa un terzo avrebbe votato forze che si riconoscono nella figura di Marwan Barghouthi, cioè nella volontà di cercare una soluzione comune tra Palestina e Israele; poco più di un quarto avrebbero votato Hamas (ma dopo il 7 ottobre e la strage di Israele a Gaza questa percentuale potrebbe essere esplosa) e meno di un sesto per Al Fatah.
Se questi risultati fossero presi anche solo come indizio se ne dovrebbe dedurre che i confini in cui sono stati rinchiusi negli ultimi anni gli abitanti di Gaza e delle residue porzioni del West Bank non ancora occupate dai coloni sono stati per i palestinesi una prigione: definita non solo dai muri e dalla onnipresenza delle forze armate israeliane, ma anche e soprattutto da una gestione “interna al carcere” affidata a una forza minoritaria come Hamas, direttamente e indirettamente favorita e foraggiata dai governi israeliani per vanificare – con pieno successo – la prospettiva dei due Stati. E per “legittimare”, come risposta ai molti attentati spesso suicidi e ai razzi, per molto tempo poco più che “di cartone”, sia i periodici bombardamenti aerei a cui è stata sottoposta la popolazione della Striscia, sia le spedizioni punitive e la frantumazione del loro territorio che hanno devastato la vita quotidiana degli abitanti del West Bank; fino a lasciar prospettare, dopo il 7 ottobre, a diversi esponenti del governo israeliano, una “soluzione finale” della questione con una nuova Nabka o, addirittura, con una bomba atomica (averla vuole sempre dire poterla usare).
D’altronde, è possibile che in quella convivenza forzata con i propri carcerieri “interni” si sia sviluppata in una parte della popolazione palestinese una sorta di “sindrome di Stoccolma” nei confronti di Hamas che l’ha indotta ad appoggiarne di fatto l’operato. Ma che alternative avevano?
In entrambi i casi – Striscia e West Bank – alla radice del conflitto c’è una questione di confini: le guerre ne sono una conseguenza e non la matrice. All’origine di quelle, come di molte altre atroci vicende belliche e non, passate, presenti e purtroppo future, ci sono la sacralizzazione, il culto e l’ossessione dei confini. L’irredentismo islamista di Hamas li vorrebbe estendere “dal fiume al mare”, liquidando la presenza di Israele e forse anche quella di tutti gli ebrei e lo proclama pubblicamente.
La premessa della fondazione di Israele come Stato etnico e non solo come presenza di una comunità di esuli profughi e autoctoni in cerca di sicurezza e di riscatto – “una terra senza popolo per un popolo senza terra” – allude allo stesso obiettivo: senza dichiararlo, ma praticandolo dilazionato nel tempo e nello spazio e, proprio per questo, con molta più efficacia. Israele non ha Costituzione né confini definiti: li considera entrambi provvisori, in attesa di un loro compimento… Ma questo è un problema che ritroviamo sempre più spesso anche altrove.
Per esempio in Ucraina: decine, forse centinaia di migliaia di soldati e di civili, donne, bambini e vecchi compresi, mandati o esposti al massacro da entrambe le parti per contendersi un territorio che la guerra continua a martellare, a devastare e forse a distruggere per sempre: per spostare in avanti o fare arretrare i confini della Nato e per disconoscere diritti e affinità di una minoranza a cui i governi ucraini del dopo-Maidan hanno continuato a negare dignità e uguaglianza.
D’altronde ci è stato suggerito o imposto per decenni di includere entro i confini del cosiddetto “mondo libero” Paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati, l’Iran dello Shah, le dittature imposte dagli Stati Uniti all’America latina e persino la Spagna e il Portogallo fascisti. Oggi, con il progressivo distacco di alcuni di quegli Stati dal predominio statunitense, quei confini e quei “valori” da difendere sono stati impercettibilmente fatti slittare in un imprecisato “Occidente”: confini per un verso più ampi, in quanto tutto il mondo è ormai stato “occidentalizzato”, ma anche più ristretti, perché ora comprendono quasi solo Stati Uniti e l’Unione Europea, escludendone sia all’esterno che al loro interno tutti coloro che non hanno la pelle bianca (come dimostra il diverso trattamento riservato ai profughi ucraini e a quelli africani).
Per non parlare della difesa dei confini delle nazioni dall’“invasione” di un “popolo” in fuga da mille Paesi diversi che accomuna le cosiddette ”politiche migratorie” dell’Europa e degli Stati Uniti (e non solo): una misura oggi usata a fini politici per attizzare paure e orgogli nazionali del tutto immotivati, ma che farà trovare i Paesi meta di questo esodo completamente impreparati alla convivenza interna e internazionale – e dunque pronti o spinti solo alla guerra – quando la crisi climatica e ambientale costringerà milioni e forse miliardi di altri esseri umani senza più alternative a imboccare quella stessa rotta.
Il globalismo sembrava averli aboliti, i confini, ma solo per far circolare liberamente merci, capitali e informazioni. Ma è agli Stati e dunque ai loro confini e alle loro leggi che ha affidato la realizzazione e l’articolazione territoriale del suo progetto. D’altronde anche la crisi climatica e ambientale, che non ha confini, ci sta insegnando che non si può affidare agli Stati e ai loro accordi fasulli il suo contenimento e una forse ancora possibile inversione di rotta.
A fornire indicazioni valide sulla strada da seguire per non soccombere c’è solo l’iniziativa dal basso di quelle comunità resilienti, per ora molto poche e isolate, che si attrezzano per perseguire non solo la mitigazione (la riduzione delle cause), ma soprattutto l’adattamento alle condizioni di vita ben più difficili del clima che ci aspetta.
Sempre più i confini si manifestano dunque come ostacolo alla ricostruzione di una vera convivenza. Ci rinchiudono in modo sempre più rigido dentro identità in cui molti non riescono o non vogliono più riconoscerci – destra e sinistra, per esempio e lo vediamo nel crescente assenteismo elettorale diffuso in tutto il mondo – o in appartenenze nazionali o regionali fasulle, o in contrapposizioni frontali (vere e proprie guerre, per ora solo a parole) che non ci appartengono e che a volte ci paralizzano, quando, assumendo posizioni che ci sembrano giuste, ci ritroviamo accanto persone e forze con cui non vorremmo avere niente a che fare. E’ successo così per i vaccini, il green pass e il lock-down che hanno rinchiuso molti di noi dietro una linea di demarcazione perentoria e intollerante. Un nuovo confine che lo scoppio della guerra in Ucraina ha rinnovato e rafforzato relegando senza se e senza ma dalla parte dell’avversario chi dissente. Oggi si sta riproponendo con ancora più forza e intolleranza nell’intimazione di prendere posizione – senza prospettare vie di uscita – “o per Israele o per Hamas”. Queste contrapposizioni disegnano confini: camicie di forza che ci riducono a spettatori – o peggio, a tifosi da stadio – e ci impediscono di interrogarci, di confrontarci sulle premesse di fondo, di fare spazio sia alle ragioni che ai sentimenti, di agire. E’ la fine della politica come arte della convivenza: prenderne atto è un primo indispensabile passo verso la sua rinascita.