Oggi tendiamo a dire alle nostre figlie che possono essere tutto ciò che vogliono: un’astronauta e una madre, un maschiaccio e una ragazza molto femminile. Ma non facciamo lo stesso con i nostri figli maschi. Alleviamo le nostre ragazze a combattere gli stereotipi e a perseguire i loro sogni, ma non facciamo lo stesso con i nostri ragazzi”.

Così, semplice, concisa e lapidaria: la giornalista e scrittrice nordamericana Claire Cain Miller risponde in questo modo a chi le chieda il perché di uno dei suoi articoli di maggiore successo, How to Raise a Feminist Son, uscito nel giugno del 2017 sul New York Times, corredato dalle buffe e tenere illustrazioni di Agnes Lee.

Insomma: anche se l’educazione non sessista non è certo maggioritaria sul pianeta l’articolo, finalmente, mette il focus dell’educazione verso i figli maschi. Avrei voluto avere questo testo a disposizione, nel 1990, quando ho dato alla luce il mio primo figlio. Nessuna delle amiche e compagne femministe a me vicine era madre, o aveva in programma di esserlo. Avevo appena compiuto trent’anni, abitavo in una delle città italiane con il minor tasso di natalità, la più vecchia dal punto di vista anagrafico (e non solo): in questa prima esperienza di maternità così come nella successiva, cinque anni dopo, ho affrontato in perfetta solitudine la bellezza assoluta e l’assoluto sconforto di mettere al mondo due figli maschi.

Sì, la mia narrazione interiore era quella di una femminista che “ovviamente” si riproduce per analogia e mette al mondo una bambina. Ho desiderato una figlia femmina perché avevo nostalgia di me bambina, e il piccolo corpo di Luna che volevo mettere al mondo (così avevo deciso si sarebbe chiamata mia figlia) era il desiderio covato nella pancia durante i mesi della gestazione, il mio modo di sentirmi forte e realizzata, nell’autoproduzione di una me piccina.

Ma oggi, dopo trent’anni di apprendistato, madre di due figli maschi ormai giovani uomini, capisco che la vera sfida che mi aspettava allora era quella di mettere al mondo l’altro da me, provando a scongiurare la paura di fallire creando un “nemico” del mio sesso e realizzando, invece, l’offerta al mondo di due maschi empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne che avrebbero incontrato e scelto.

Perché è un dato di fatto: il mondo gira ancora intorno alla frase augurale che senza vergogna si profferisce all’indirizzo delle future madri e coppie in attesa: “Auguri e figli maschi”. Se non avete mai sentito questa frase siete parte di una minoranza felice. L’auspicio, all’apparenza innocuo e festoso, è la dimostrazione plastica che il mondo non è un posto per femmine; forse in Islanda non sapranno come tradurla, la frase, ma sfido chiunque a trovare una cultura, fatta eccezione appunto per qualche zona del nord del pianeta (o l’esperienza matriarcale Moso e pochissime altre) nella quale questo concetto sia realmente sconosciuto e alieno.

Pensateci, chi l’ha appena pronunciata rivolta a una coppia, o a una donna incinta, esprime il desiderio sincero e benaugurante che l’esito dell’unione e della gravidanza porti il meglio, il massimo, la perfezione, il premio più ambito: che è la nascita di un figlio maschio, non di una bambina.

Quante volte abbiamo ascoltato amiche raccontare che “mio padre (o mia madre) voleva un maschio, poi però sono nata io”? Quante di noi sono tra queste nate “per errore” nel secondo sesso? Fortunatamente la stragrande maggioranza delle donne sono state bambine amate e donne supportate dalla famiglia, anche se in segreto la prima scelta sarebbe stata quella di un maschio. Ma è innegabile che sulla nascita di una figlia femmina, al posto dell’invocato figlio maschio, si stenda un’ombra ancestrale di imperfezione e disappunto.

È, insomma, l’inizio di una storia che nasce già con un inciampo, una penalità, un handicap: peccato, non è un maschio. Sarà per la prossima volta.

Se vi state chiedendo, essendo padre, madre o comunque punto di riferimento adulto di un bimbo o un ragazzo, se sia possibile trasferire le idee del femminismo in un giovane d’oggi, la mia risposta è decisamente sì.

Come dice Emma Watson nella sua dichiarazione alle Nazioni Unite nel discorso d’investitura come testimonial della campagna He-ForShe, il mondo ha bisogno di uomini femministi, e anche di femministi involontari.

Difficilmente dei bambini, e successivamente dei ragazzi, figli di madri femministe (se il legame è stato, pur conflittuale, fecondo e rispettoso) saranno uomini violenti e non empatici con le donne.

Penso che l’esempio e la passione di attivista femminista siano contagiosi e utili anche per i nostri figli maschi: li rende più consapevoli, autocoscienti e capaci di assumere anche l’altro punto di vista, liberando il maschile della gabbia sessista del machismo.

Come ebbe a scrivere Robin Morgan nel suo Il demone amante: “Essendo qui, e sapendo ciò che so, non posso scegliere altro che di inventare un modo diverso di vivere. Non posso, però, farlo da sola. Ed è qui che entri in campo tu”.

Mi sembra un buon viatico anche per gli uomini che vogliono lavorare per il cambiamento delle relazioni umane. Per questo ho deciso di mettere dentro ad un piccolo libro l’esperienza e gli insegnamenti acquisiti per via, con le relazioni, gli incontri, i saperi e lasciare una traccia della possibilità di cambiamento del mondo maschile attraverso l’educazione. Si chiama Mio figlio è femminista – crescere uomini disertori del patriarcato: in esso suggerisco, in modo serio ma anche, spero, suscitando sorrisi e magari qualche risata, come poter guidare i figli che state allevando a diventare persone adulte di riferimento che sanno usare uno sguardo divergente, curioso ed empatico verso l’altra da sé, per trovare il loro posto nel mondo come uomini “disertori” del patriarcato.