Mentre scriviamo queste righe a proposito di quanto è avvenuto e sta avvenendo in Palestina e in Israele, e in particolare nel sud del Paese e nella Striscia di Gaza, lə nostrə attivistə sono impegnatə su diversi fronti.
In Marocco, una nostra missione esplorativa ha attraversato il Paese disastrato dal terremoto, portando aiuti alla popolazione civile e cercando di evitare gli ostacoli posti dal governo. In Ucraina, continuiamo a portare assistenza sanitaria di base e aiuti umanitari alla popolazione civile e allə rifugiatə di guerra stremati da quasi due anni di conflitto e di invasione russa. Nel Mediterraneo Centrale, la Mare Jonio ha soccorso negli ultimi giorni altre 116 persone che rischiavano di morire in mare per non arrendersi alle torture dei lager libici o alla violenza della polizia tunisina, a fame, guerra e miseria.
Basta? No, non basta mai. E soprattutto perché per noi “metterci in mare”, incontrare e allearci con quelle persone la cui forma di vita spesso non viene riconosciuta, ma mortificata e negata, ha significato imparare a vedere diversamente, trovare un modo di nominare l’orrore del nostro presente e trasformare le nostre lotte per, a questo presente, non rassegnarsi mai.
Per lo stesso motivo vorremmo ora essere a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, vorremmo essere con tutte le popolazioni civili, con chi è sotto il lancio di missili, con chi è stato ed è obiettivo di violenze atroci, con chi è in fuga dalle bombe, con chi soffre assedio ed espulsione forzata, per non smettere di vedere, come Mediterranea ha sempre fatto, prendendo una posizione.
Fare e vedere sono di nuovo le cose più difficili, eppure le uniche possibili. Riconoscere, prendere parola e agire, lo sforzo eticamente necessario a cui non vogliamo sottrarci.
Quello che abbiamo visto finora e a cui ci apprestiamo ad assistere è semplicemente orrore. Ma come nominare questo orrore che ci ha sorpreso, riconoscerlo nelle terribili declinazioni della sua attualità? Vogliamo dire che la strage attuata il 7 ottobre da Hamas contro donne, uomini e bambinǝ israelianǝ non è un atto eroico, ma un attacco ignobile e crudele, un massacro pianificato e diretto contro la popolazione civile. È un atto che indubbiamente attecchisce su un terreno preciso, quello della percezione di vita negata, mutilata, da parte di un’intera generazione di giovani palestinesi cresciutə con l’immagine dei loro genitori, dei loro fratelli e delle loro sorelle, uccisə barbaramente dall’esercito di Tel Aviv, un terreno però su cui non di meno i capi di Hamas hanno coltivato l’odio, la vendetta e il nichilismo funzionali alla propria ascesa politica e militare.
Di più, vogliamo dirlo senza rivolgerci al passato, perché sono le lezioni che abbiamo appreso da altrə compagnə che abbiamo incontrato nel mondo e in questi anni che ci spingono a rivolgere il nostro sguardo in avanti. È dalla lotta delle donne iraniane incarcerate e assassinate dal regime degli Ayatollah, dal Confederalismo Democratico sperimentato dal popolo curdo del Rojava, dal movimento transfemminista che dall’America Latina si è diffuso in tutto il mondo, che traiamo l’immaginazione di una politica a venire, l’insegnamento che un progetto antisemita, misogino e teocratico non possa essere compatibile con una lotta di liberazione e per l’eguaglianza radicale.
Vogliamo denunciare che nella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza, costruita negli anni come una gabbia per animali dai governi israeliani, si stanno consumando crimini di guerra, crimini contro l’umanità. Che bombardare civili e spesso le stesse carovane di abitanti a cui è stato ordinato lo sgombero forzato dalle proprie case, colpire indiscriminatamente abitazioni, ospedali, sedi di associazioni umanitarie, lasciare senza luce, cibo, acqua, oltre due milioni di persone che non possono scappare da nessuna parte, utilizzare armi micidiali come il fosforo bianco, è un abominio.
Vogliamo ricordare che la politica violenta e disumana del Governo Netanyahu è solo la punta dell’iceberg dell’occupazione israeliana che da decenni umilia e opprime il popolo palestinese. Lo Stato israeliano, con la complicità degli altri Stati regionali, e quindi spesso dei regimi arabi, e dell’Occidente priva il popolo palestinese dei suoi diritti, della pace e della sua terra da decenni. Che la violenza dei coloni armati in Cisgiordania ha raggiunto nell’ultimo anno livelli di brutalità e disumanità quasi inediti.
Dobbiamo riconoscere che lo statuto di democrazia liberale è utilizzato ipocritamente come lo schermo dietro al quale si perpetrano violazioni sistematiche dei principi più blandi del diritto internazionale, si diffonde la più tetra apatia burocratica che riduce la vita dellə oppressə – così come accade per chi viene respintə per mare o ad altre frontiere – a quella di “animali umani”, a mero calcolo demografico, attraverso l’esercizio di un terrore legalizzato, silenzioso e strisciante.
Vogliamo schierarci, mentre un coro unisono invoca il diritto di Israele a difendersi, con quella parte della società israeliana che si oppone all’occupazione dei territori e alla distruzione di Gaza oggi come alla vocazione autoritaria e alla deriva confessionale del proprio Stato fino a ieri, con gli ebrei americani che occupano Capitol Hill, con il padre di Noa, ostaggio di Hamas, e dire con lui: “Dopo quanto accaduto, facciamo la pace con i nostri vicini, a qualunque costo”.
La guerra nel nome della vendetta è capace di ogni infamia.
Se uccidere unə bambinə per riparare il torto di unə altrə bambinə mortə sotto i bombardamenti è solo tenebre, la lucida e per nulla lungimirante ferocia della vendetta è l’alibi e l’ispirazione dei crimini commessi da Hamas come di quelli dell’esercito israeliano a Gaza, di fronte agli occhi del mondo. Una politica cieca e auto-distruttiva per lə abitanti di Palestina e Israele. Gideon Levy, Ruba Salih e moltə altrə hanno ben spiegato che l’occupazione, questa punizione collettiva per i palestinesi che da decenni i governi israeliani perpetrano, oltre che disumana è il miglior foraggio per il fondamentalismo e fermarla sarebbe l’unico antidoto alla spirale di violenza. E per Netanyahu, un leader corrotto, militarista e sostenuto dai settori più integralisti della società israeliana, sembra essere ormai l’unica opzione di sopravvivenza politica.
Non possiamo non rivolgere il nostro sguardo a chi vive oggi in quel fazzoletto di terra che si affaccia sul Mediterraneo, alla popolazione israeliana sotto la costante minaccia del terrore e alla popolazione della Striscia, che si appresta ad essere invasa e rasa al suolo; a quella terra contesa, spezzettata da muri e confini militarizzati; a quella regione del mondo martoriata da guerre. Non possiamo che pensare a queste persone, tenute in ostaggio dalla guerra, allə israelianə innocenti sotto il governo Nethanyau, allǝ palestinesi innocenti intrappolatǝ e agli ostaggi innocenti in mano ad Hamas.
Non esiste un’alternativa, se non vogliamo morire come umanità, che non sia la ricerca e la costruzione della pace nella giustizia. La giustizia che il popolo palestinese attende da 80 anni: la libertà di movimento, la possibilità di esercitare i propri diritti sociali e politici, di vivere in pace nella propria terra, premessa indispensabile per altrettanta sicurezza, libertà e godimento di eguali diritti da parte del popolo israeliano.
Non esiste alternativa alcuna, affinché ciò sia possibile, a quel primo passo che deve compiere Israele: mettere fine all’offensiva su Gaza e, in prospettiva, all’apartheid di cui da decenni è vittima il popolo palestinese e a un’occupazione coloniale e violenta, il cui prezzo continua a pagare la popolazione civile. Possa essere ascoltato il grido dellə israeliani che chiedono di fare un passo verso la pace, rinunciando all’occupazione.
Fermare le bombe e i missili dal cielo e l’invasione da terra.
Liberare TUTTI gli ostaggi: lə oltre 250 civili rapitə il 7 Ottobre e i 2 milioni e mezzo assurdamente rinchiusə a Gaza e in Cisgiordania, che devono avere la garanzia di poter vivere in dignità e libertà nella terra che abitano.
Cessare le ostilità per aprire lo spazio della pace.
Faremo il possibile, in questa difficile situazione, affinché le parole di questo comunicato possano essere anche dei fatti, sul campo, là dove bisogna essere.