Nella Scuola Elementare Pier Maria Canevari, a Genova, San Martino d’Albaro, Giorgio Caproni ha frequentato la 5a elementare. In una sua poesia ne parla. Anch’io ho frequentato quella scuola.
La lezione sulle leggi razziali, quella mattina, in quella scuola, anno scolastico 1938-39, IV elementare, io la ricordo bene. Ricordo l’aula, la disposizione dei banchi. Il mio banco era di fronte alla cattedra, in prima fila. La nostra maestra camminava fra i banchi e parlava. Era un modo insolito, il suo, quella mattina. Le altre mattine lei stava sempre seduta alla cattedra. Era una madre di famiglia, la nostra maestra, di mezz’età. Veniva dalla provincia piemontese, era molto devota della fede cattolica. Io una mattina avevo colto un suo discorso con la madre di una compagna di scuola. Parlavano dei genitori di un’altra compagna, che non andavano d’accordo, che litigavano. La maestra aveva chiesto: “Ma sono andati a parlare con il parroco?”.
Questa domanda mi aveva colpita per la sua stranezza. La nostra maestra pensava che in una famiglia di operai genovesi, il padre, la madre, in relazioni di aperta discordia, potessero pensare di rivolgersi al parroco. Io capivo che questo pensiero era lontano dalla realtà, perché sapevo che il parroco nella sua parrocchia era lontano dal mondo delle famiglie di operai come le conoscevo io. Battesimo, prima comunione, cresima, sposalizio, funerale, in genere soltanto per queste cerimonie nelle famiglie di operai succedeva che qualcuno si rivolgesse al parroco. Inoltre a Natale il prete e due chierichetti entravano nelle case per la benedizione.
Il fatto è che i foresti, quando nominano San Martino d’Albaro, pensano soltanto all’ospedale di San Martino, ma si tratta invece di una vasta zona, che a quei tempi era divisa fra le aree dei sottoproletari, dei proletari, sotto, in basso, e le aree del ceto medio, che si raggiungevano percorrendo una stradina in salita, o salendo per una scalinata di 130 scalini e poi attraversando una lunga creusa, in piano, in salita, in discesa, fino allo sbocco sullo stradone verso lo spiazzo di San Martino, da cui si scende in tre direzioni, verso il centro della città, verso il mare e verso la strada dei monti.
Nella scuola elementare alla Sezione A venivano iscritti alunne e alunni, in classi separate, di famiglie nella quasi totalità benestanti. Io ero iscritta alla sezione B.
La maestra quella mattina aveva ottemperato al compito di spiegarci le leggi razziali senza mai pronunciare la parola “ebreo”. Ci aveva detto: quando dovete compilare un modulo, alla domanda “razza” dovete rispondere: “razza ariana”. Io non avevo capito. Poi, ebrei non ne conoscevo. Non sapevo che cosa volesse dire “ebreo”. Non sapevo che cosa volesse dire “ghetto”. Una condizione tutta diversa da quella di Giorgio Forti, ad esempio, che nel 1938 era stato espulso dalla scuola elementare dello Stato italiano ed era stato accompagnato da suo padre in Francia, insieme con il fratello, per avere la possibilità di frequentare una scuola elementare francese.
Degli ebrei, ho saputo dopo l’aprile 1945 e da allora per me “ebrei” ha significato a lungo lo sterminio ad opera dei nazisti e dei fascisti, e anche un mondo di uomini giusti per sempre, il mondo degli ebrei, a cui ora rendevamo giustizia per lo sterminio sofferto, eleggendoli a maestri di umanità, per sempre. Fortini, ebreo, ci ha parlato del tempo di quella illusione? Oggi è tempo di leggere o di rileggere Fortini?
Scrivo consapevole di essere solo in grado di balbettare. Provo a scrivere di questioni più grandi di me. Nello stesso tempo so che cercare di essere dalla parte di chi subisce ingiustizia contro chi la compie o la sostiene, dà senso alla mia vita. So che ogni particolare imposizione di ingiustizia fa capo all’ingiustizia della società divisa in classi, fra sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi, che la lotta contro la disumanizzazione dell’umanità è lotta perché abbia termine il tempo dell’uomo strumento per l’uomo. Che l’uomo sia lo scopo dell’uomo, verso questo tempo nuovo. Mao ci ha insegnato qualcosa, nel suo modo, ci ha detto: per il tempo della celeste armonia dobbiamo ancora camminare per diecimila anni.
Sabato 14 ottobre 2023 ho partecipato alla manifestazione dei palestinesi. Mi sono mossa con largo anticipo, camminando a passettini, con il bastone, verso la metropolitana. Sono arrivata in Piazza Duca d’Aosta appena in tempo per l’avvio del corteo. Mi hanno notata, con la kefiah sulle spalle, una vecchietta, mi hanno issata sul furgone aperto che apriva il corteo, mi hanno offerto una sedia nello spazio del cassone su cui stavano donne e uomini palestinesi, dirigenti, con il microfono in mano. Dalla strada mi guardavano, le palestinesi, i palestinesi di tutte le età, con sguardi di una certa sorpresa, prima, e poi con cenni di intesa, di saluto, di accoglienza fra di loro. Nel corteo, senza una pausa, il grido per Gaza, le notizie sul bombardamento per la distruzione di Gaza, le modalità della guerra di annientamento che Israele ha annunciato contro due milioni di palestinesi, per la metà bambini. I palestinesi vengono considerati subumani in conseguenza dell’attacco di Hamas, condotto con modalità che Israele da decenni e decenni adotta nei loro confronti. Senza una pausa, il grido per la liberazione della Palestina “Palestina, terra mia”, un grido combattente e commovente, ripetuto, ripetuto. “Israele criminale, Israele fascista, Stato terrorista”.
L’accusa all’Occidente: “Un mondo che ha scritto la Carta dei diritti umani, la Carta dei diritti dei bambini, ignora i diritti dei palestinesi, ignora i diritti dei bambini palestinesi”. L’accusa è ripetuta, scritta su cartelli: “The only kids the NATO cares are kids of colonizers. Free Palestine”. “I morti palestinesi sono morti di serie B”.
Dalla cabina del furgone si dà lettura di un messaggio di Luisa Morgantini: “E’ necessario uscire dalla spirale della violenza, della vendetta”. Un cartello dice: “Restiamo umani, anche quando l’umanità pare si perda. Vittorio Arrigoni”.
L’accusa al sindaco Sala, che ha esposto solo la bandiera di Israele e non anche quella della Palestina. L’appello al governo italiano perché assuma una posizione per la pace, perché Israele faccia passi indietro.
“A State built on the ashes of the Holocaust is now committing Holocaust against Palestinians in Gaza”. “A Gaza, bambini soli, che hanno perduto i genitori. Il mondo li abbandona, li ignora”.
Improvvisamente, si leva il canto di Bella Ciao. Anch’io, ora, levo la mia debole voce e canto con i palestinesi. “Non ci arrenderemo mai”. “Ora e sempre Resistenza”. Infine, questo grido, questa domanda: “Dove sono i diritti dei palestinesi?”.
Da tempo, sulla questione della guerra e della pace io mi esprimo richiamando il verso di Orazio, Bella matribus detestata, Le guerre sono detestate dalle madri, Odi 1, 1, 24.
E’ tempo che noi madri non ci limitiamo a detestare le guerre, che facciamo quanto è possibile fare, ogni giorno, per impedirle? E’ tempo che non ci arrendiamo alla disumanità della guerra, che ogni giorno costruiamo coscienza e lotta per la pace con giustizia? Per la pace con giustizia, oggi ripetiamo un grido, una domanda: “Dove sono i diritti dei palestinesi”?
Dall’1 all’8 settembre 2022 ho partecipato al pellegrinaggio in Terra Santa organizzato dall’Arcidiocesi di Genova e presieduto da mons. Marco Tasca, arcivescovo di Genova. Sono stata accolta in quel gruppo di cattolici genovesi per quanto io non sia partecipe di alcuna fede religiosa. Ho visto gli insediamenti dei coloni in terra di Palestina, ho visto i muri, nello Stato di Israele ho respirato un’atmosfera di dominio feroce.
Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto intravedere la felicità, e poi ne ha sconvolto i destini, dalle radici. Erodoto, Storie, 1, 3, 29