Dal 25 giugno il Collettivo Rotte Balcaniche è presente nella regione sud-orientale della Bulgaria, nei pressi del confine turco, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad.
Il Collettivo è un gruppo informale di attivistə che si pone il triplice obiettivo di supportare attivamente le persone in transito lungo le rotte balcaniche, di raccogliere testimonianze e produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini d’Europa e di mobilitare la società civile sulle tematiche legate alle migrazioni. In questo senso, negli ultimi tre anni è stato attivo in Italia, Bosnia ed Erzegovina e Serbia.
Il rapporto, intitolato “Torchlight, gettare luce sulla violenta opacità del regime europeo dei confini”, è stato scritto da un punto di vista solidale ma rigoroso, dopo due mesi di permanenza nel territorio bulgaro: lo scopo è di rendere pubblica e denunciare la violenza razzista delle autorità, che quotidianamente ledono i diritti fondamentali delle persone migranti. Di fronte alla mancanza di informazioni che caratterizza il contesto bulgaro, all’opacità e la connivenza che ricoprono l’operato delle autorità bulgare ed europee, questo scritto vuole essere una “presa di parola”, che risponde alla necessità pressante di alzare una voce di verità contro le menzogne delle istituzioni, che provano a soffocare anche la “presenza inconsueta e fastidiosa” del Collettivo.
Le informazioni riportate sono frutto di un costante lavoro collettivo di ricerca, le testimonianze raccolte provengono direttamente dai racconti delle persone incontrate, e sono riportate nel rispetto del loro consenso e della loro sicurezza. Nonostante questo report si focalizzi sulla situazione bulgara, il Collettivo Rotte Balcaniche sottolinea come le pratiche osservate si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”. Il confine bulgaro-turco, in particolare, rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa, il confine di terra più caldo e violento della rotta balcanica.
Il report, oltre a fornire un quadro generale sulla rotta che attraversa la Bulgaria, mettendo a fuoco i principali nodi delle politiche nazionali ed europee su questo territorio, affronta tre tematiche principali: le condizioni di vita nel centro di detenzione di Lyubimets, le violenze e i respingimenti sul confine bulgaro-turco e le violenze sul confine serbo-bulgaro.
La necessità di approfondire il contesto bulgaro nasce, da una parte, dall’incremento dei transiti osservato nel 2022, dall’altra dalla violenza brutale della polizia contro le persone in transito, già denunciata dalle inchieste di Human Rights Watch e Lighthouse Reports. Le recenti statistiche diffuse dalla Direzione generale della Polizia di frontiera indicano un’ulteriore intensificazione dei flussi nei mesi estivi del 2023, con un aumento del 73% dei tentativi di attraversamento illegale della frontiera turco-bulgara impediti nei mesi di giugno e luglio, rispetto agli stessi mesi del 2022 (46 940 persone nel 2023 e 27 083 nel 2022). Dal 1° gennaio al 7 agosto 2023 ci sono stati, sempre secondo la Polizia di frontiera, 108 954 tentativi di attraversamento illegale fermati, contro i 67.846 del corrispondente periodo del 2022. Evidentemente, l’aumento dei transiti e l’aumento dei push-back[1] vanno di pari passo: sono le autorità stesse a rivendicare mediaticamente e statisticamente questa pratica illegale.
Il centro di Lyubimets è uno dei due detention centre del Paese – l’altro è il centro di Busmantsi, nella periferia della capitale – dove le persone vengono sistematicamente detenute a priori dopo l’entrata irregolare. Il 98% delle persone richiedenti asilo in Bulgaria, infatti, viene inizialmente detenuta per un periodo che varia dai 15 ai 20 giorni prima di poter fare domanda d’asilo[2], periodo che può arrivare fino a 18 mesi se la persona è ritenuta “rimpatriabile”. La possibilità di chiedere asilo è sottoposta a continui ricatti ed ostruzionismi, anche da parte dellə funzionariə UNHCR, e le procedure accelerate[3] portano a dinieghi di massa sulla base della nazionalità. Inoltre, lə iranianə e lə curdə dissidenti che fuggono dalle dittature iraniana e turca affrontano il concreto rischio di deportazione, che può significare esecuzione o carcere a vita.
Oltre all’illegittimità di queste prassi, il report approfondisce anche le terribili condizioni che caratterizzano questa struttura, riportando diverse testimonianze dellə detenutə: “Onestamente, non può esistere un posto del genere, non ci sono cure, non si mangia, non ci si lava, niente” (Svilengrad, 25/07/2023); “Chiudevano le porte delle camere la notte, dopo le 23, dicendo che a chiunque avesse osato suonare il campanello per andare al bagno avrebbero rotto le dita” (Harmanli, 25/07/2023); “Mettevano bambini di 4 e 5 anni con noi, nelle stanze degli adulti, e questo non è accettabile. Ci urlavano addosso insultandoci e colpendoci” (Harmanli, 25/07/2023).
Nella terza e quarta sezione viene affrontato il tema della violenza della polizia sul confine bulgaro-turco e su quello serbo-bulgaro. Nei due confini, il comportamento della Polizia di frontiera bulgara segue pattern molto simili, sebbene nel primo caso porti quasi sempre al respingimento in territorio turco, mentre nel secondo porti alla detenzione oppure al ritorno nei campi aperti. Le zone dove quotidianamente si perpetua questa violenza sono intorno al valico di Kalotina, nel nord, e nell’ampia regione del confine meridionale compresa tra Lesovo e Malko Tarnovo. In entrambi i contesti, la violenza non è mai episodica, ma sistematica. Il metodo di azione della border police bulgara prevede che le persone vengano obbligate a spogliarsi e picchiate con mazze da baseball anche per oltre un’ora. Viene fatto uso di cani addestrati per mordere, vengono utilizzate armi di fuoco per intimidire e talvolta direttamente contro le persone – come confermato dal caso di Abdullah El Rustum Mohammed -, i telefoni vengono rubati o rotti, così come i soldi, le carte di credito e i vestiti in buono stato. Di seguito, alcuni stralci esemplari:
“Siamo entrati in terra bulgara e abbiamo camminato per circa 6 giorni, attraverso strade montuose e accidentate, molto difficili e pericolose, e abbiamo fatto la strada di notte. Siamo stati sorpresi dai cani della polizia, che erano tre, ed i cani ci hanno attaccato, ci hanno attaccato uno per uno. Ci hanno attaccato con forza e durezza e poi ci hanno fatto morire di fame in un camion con la scritta “border police”. Ci hanno anche picchiato prima di portarci fuori dalla rete […]” (Svilengrad, 02/08/23)
“Siamo partiti dal campo di Harmanli per raggiungere la Serbia […] Per fare l’ultimo tratto siamo saliti in treno, per andare verso il valico di Kalotina. Appena siamo scesi dal treno ci hanno raggiunto tre guardie della border police con i cani. Ci hanno bloccato e ci hanno intimato di rimanere a terra con le mani dietro la testa. Ci urlavano di fare silenzio e mentre lo facevano liberavano i cani che ci mordevano alle gambe e ai fianchi. Questa cosa è durata per alcuni minuti e poi ci hanno caricato su un furgone e ci hanno portato in una caserma della border police. In questa caserma c’erano altri poliziotti che hanno iniziato a insultarci. In questo luogo ci hanno preso a calci, ridevano e ci dicevano di stare in silenzio e di non parlare per nessun motivo. Questa cosa è durata 4 ore […].” (Harmanli, 02/08/2023)
Alcuni racconti hanno segnalato il coinvolgimento nelle operazioni – assieme alla Polizia di frontiera e alle squadre dell’esercito – anche degli agenti di Frontex: “La polizia bulgara indossava uniformi verdi, mentre quella tedesca indossava uniformi blu” (Harmanli, 27/07/23). Il Collettivo ha potuto verificare la presenza di Frontex nella caserma di Polizia di frontiera di Sredets, epicentro operativo per le operazioni di cattura e respingimento, assieme a poliziotti e militari locali che lavoravano con T-shirt tipiche dell’estrema destra, tra cui una proveniente da Predappio, con disegnato il fascio littorio.
Le attivistə sottolineano che questa prima pubblicazione non pretende di essere esaustiva, ma prova a comporre il complesso mosaico che si trova di fronte chi, attraversando frontiere sempre più chiuse, sfida il regime europeo dei confini, a partire dalle auto-narrazioni delle persone migranti stesse. In questo senso, si rinvia a successive pubblicazioni per l’approfondimento di tematiche qui solo citate, come le condizioni di vita nei campi aperti, le omissioni e le bugie delle autorità nelle “operazioni di ricerca e soccorso”[4], il problema del riconoscimento e del rimpatrio dei corpi, le decine di desaparecidos nelle foreste della frontiera.
Infine, il Collettivo conclude ritornando sulle motivazioni che hanno portato alla stesura di questo rapporto ed ad essere presenti ai confini d’Europa: “Qui, all’estrema frontiera d’Europa, ci scontriamo con l’impotenza, davanti ad un sistema di oppressione che vede tuttə coinvoltə, dalla piccola municipalità di Harmanli alla Commissione Europea, dal singolo poliziotto di frontiera al direttore di Frontex. Di fronte a ciò, questo report – come la nostra presenza sui confini – vuole essere un seme, consapevoli che solo in tantə, nella diversità delle pratiche possibili, possiamo rompere questa impotenza e, riconoscendo la radicalità del conflitto sulla libertà di movimento e facendo della solidarietà la nostra arma, aprire brecce sui fili spinati dell’Europa-fortezza.”
Al link seguente è scaricabile in PDF il report completo, sia in italiano che in inglese: https://we.tl/t-R1oligx9uk
[1] Secondo l’UE stessa, “Per push-back (o respingimenti) si intendono le varie misure adottate dagli Stati, a volte coinvolgendo paesi terzi, che consistono nel respingimento forzato delle persone che tentano di attraversare una frontiera, sia essa di terra o di mare. Senza valutazioni delle loro necessità, violando i loro diritti e ogni esigenza di protezione umanitaria.”
[2] Bulgarian Helsinki Committee, Human Rights in Bulgaria in 2022, p. 91
[3] Prassi incoraggiata dalla stessa von der Leyen nella lettera programmatica del 20 marzo 2023.
[4] Il Collettivo è impegnato anche nella risposta alle numerose segnalazioni di persone in movimento che non riescono a continuare il viaggio e si trovano in condizioni sanitarie critiche, bloccate nelle foreste lungo la frontiera bulgaro-turca. Due report di operazioni “SAR” (di ricerca e soccorso) sono stati già pubblicati su Melting Pot Europa, e sono disponibili in italiano ed inglese ai seguenti link:
https://www.meltingpot.org/en/2023/08/bulgaria-let-somebody-die-is-killing/, https://www.meltingpot.org/en/2023/08/bulgaria-for-all-border-deaths/