Gli ultimi drammatici eventi hanno riportato la città di Napoli al centro dell’attenzione, dopo che lo era stata per la vittoria della sua squadra di calcio e ancora prima per una serie di inchieste sulla “nuova stagione di rinascita”, in particolar modo nella zona complessa e storica dei “Quartieri Spagnoli”.
Sulla situazione attuale nel capoluogo campano, sulle vicende politiche e sociali che l’hanno attraversato negli anni passati, sul ruolo della politica, i problemi del terzo settore e dell’associazionismo di base abbiamo intervistato Andrea Morniroli, di origini piemontesi, ma da più di 30 anni napoletano acquisito. Andrea si occupa di politiche sociali e di welfare dall’inizio degli anni Novanta, ha promosso la cooperativa sociale Dedalus, di cui è amministratore e responsabile, fa parte del Forum Diseguaglianze e Diversità. E’ autore di diversi saggi, l’ultimo “Rammendare: il lavoro sociale e educativo come leva per lo sviluppo” con Patrizia Luongo e Marco Rossi Doria, Donzelli, 2021.
Dopo che per mesi si è esaltato il nuovo “Rinascimento” napoletano, con inchieste sui Quartieri Spagnoli e lo scudetto al Napoli, i fatti di Caviano e l’uccisione del giovane musicista hanno riproposto l’immagine più drammatica della città. Ci puoi fare un quadro della situazione e delle le dinamiche che l’attraversano?
Napoli è fatta di tante facce. Un mio amico urbanista impegnato nel sociale, Giovanni Raino, che si occupa degli “Spagnoli”, dice che Napoli è attraversata dal paradigma dell’ambiguità. E’ difficilissimo interpretare la realtà in bianco o nero; è una realtà in cui tutto si confonde, dove emerge il grigio.
E’ evidente che dopo la pandemia, dopo due anni di crisi, fenomeni già presenti diventino più rilevanti. D’altra parte dopo il Covid c’è un diffuso prevalere di divisione, spinte corporative, ma anche di cattiveria e rabbia nello stesso mondo adolescenziale, spesso tra loro stessi; questo si sente ancora di più dove ci sono contesti duri.
Passati i tre anni di pandemia, con due anni di scuole chiuse a causa della scelta del governatore De Luca, siamo di fronte a una povertà educativa che si esplicita, in alcuni quartieri, con il 60% di fallimento formativo e dispersione scolastica. E il dato impressionante è che in questa percentuale, quasi il 35% erano situazioni non segnalate ai servizi sociali. Ciò significa che gli impoverimenti non soltanto hanno schiacciato verso il basso chi se la passava male, rendendo inseparabile la povertà assoluta, ma hanno anche peggiorato drammaticamente la condizione di famiglie che prima riuscivano almeno ad arrivare a fine mese e a soddisfare minimamente i bisogni scolastici dei figli.
Napoli è anche la città dove è tornato ad aumentare il lavoro minorile, perché in un contesto materialmente difficile si preferisce mandare il figlio diciassettenne in nero a 300 euro, perché è l’unico modo di contribuire ad un reddito puzzle del nucleo famigliare. Naturalmente tutto questo c’è sempre stato.
In sostanza da un lato hai situazioni di rilancio della città, del turismo, della produzione culturale, in cui Napoli non è seconda a nessuna, neanche a Milano o Roma, così come ci sono straordinarie esperienze di rigenerazione sociale urbana, dal quartiere Sanità ai già citati Spagnoli, a esperienze come i “maestri di strada”, la nostra stessa cooperativa, ma al contempo ci sono aree di povertà sempre più diffusa, di abbandono.
Quando le politiche vengono fatte non in un’ottica strategica, con una programmazione del soggetto pubblico, ma da tante soggettività che per quanto siano straordinarie e generose non si tramutano in politica, non c’è un impatto efficace sulla città. Io lo dico spesso a me stesso come cooperatore sociale e anche agli altri soggetti del settore: non possiamo più accontentarci dello straordinario, dobbiamo tornare a pretendere dalla politica un governo pubblico dei processi e attività di sostegno, al di là delle vuote dichiarazioni sul nostro eroismo, invece di sostegni precari e casuali.
A proposito di “politica”, in questi anni si sono alternate diverse amministrazioni di sinistra, da Bassolino a De Magistris, fino a quella attuale di Manfredi. Come si sono mosse di fronte alle tematiche che hai affrontato, cosa hanno o non hanno fatto?
Queste amministrazioni hanno provveduto a un rilancio culturale, hanno provato a cambiare la narrazione comune su Napoli, anche con l’inserimento di assessori di qualità, per utilizzare le bellezze, l’arte, le tradizioni storiche della città, per rilanciarne l’immagine. Ma in 25 anni questa narrazione ha impattato principalmente sul centro cittadino, se non con qualche eccezione, come l’apertura dell’Università a Scampia, mantenendo una città separata, con una componente benestante che si avvantaggia di questo rilancio culturale e sociale, e un altro pezzo che rimane sempre più ai margini. Quando queste due realtà non convivono, ma coabitano il problema rimane. Anche di fronte ai fatti recenti da una parte il settore benestante parla di orrore, condanna, sono emerse posizioni pericolose favorevoli a pene per i sedicenni, a portare via i ragazzini dalle famiglie camorriste, dall’altra c’è la città che vive ai margini che si autoassolve, che afferma: “Noi facciamo così perché tanto siamo abbandonati, non c’è la politica”.
Se il cambiamento parte dal centro ma si ferma lì e non tocca la periferia alla fine produce rabbia e frustrazione. Con Bassolino c’era indubbiamente una squadra di giunta di spessore, con capacità di ascolto. Le giunte succedutesi, al di là dei limiti personali, hanno avuto una certa debolezza, perché negli anni c’è stato anche un degrado della politica, quindi della qualità degli assessori. All’epoca della prima giunta Bassolino e forse di quella iniziale di De Magistris, si aprivano spazi di ascolto che favorivano dinamiche di cambiamento. Andavi a parlare con l’assessore, avevi posizioni differenti, ma poi qualcosa cambiava, c’era condivisione. Oggi forse per mancanza di coraggio si confonde la partecipazione con il mero ascolto.
Per quanto mi riguarda a 62 anni, dopo 40 di impegno sociale non ne posso più di Consulte, di essere udito, e poi non cambia nulla. Vorrei vedere fatti concreti. Quando ho fatto l’assessore in un paese dell’hinterland, ho aperto dei tavoli in cui riprogettavo le politiche, non ascoltavo e poi facevo come mi pareva, magari si litigava ma la pratica era un’altra. Se non fa questa scelta la politica non funziona, se rinuncia al suo ruolo strategico, di coordinamento non va bene.
Rispetto al ruolo del terzo settore, che cosa riescono a fare i soggetti sociali di base, di movimento? Incidono o sono residuali? Ci sono esperienze che delineano un welfare dal basso, a fronte di quello burocratico e centralizzato?
A Napoli, come buona parte del Sud d’Italia, ci sono esperienze sociali, dal terzo settore al volontariato e soggettività varie, che oggi producono modelli alternativi di comunità, che propongono cose che si possono fare e già si stanno facendo nei territori, producendo sviluppo locale, prossimità, risparmio energetico, percorsi virtuosi, a dimostrare che soltanto in un intreccio forte tra economico, sociale e culturale c’è la possibilità di coinvolgere territori oggi ai margini. Solo valorizzando i margini si può pensare alle città.
Rispetto ai soggetti che hai citato penso che ci siano tre ordine di problemi:
Primo, non sono sostenuti da politiche, quindi come dicevo certe esperienze rischiano sempre di rimanere sperimentazioni; secondo, molto spesso non c’è la percezione del ruolo politico che potrebbero avere, quindi si accontentano di fare. Oggi però il lavoro sociale o è politico o non è, rischia di colludere con la privatizzazione o con lo smantellamento del welfare;
Inoltre c’è un terzo settore che in questi anni ha scimmiottato l’impresa profit, ha accettato un ruolo di mero erogatore di servizi, spesso in condizioni che non consentono la qualità del lavoro e della vita delle persone che accedono a quel servizio. Come terzo settore se vogliamo misurarci con la complessità e la durezza degli episodi che sono la punta di un iceberg, di un degrado molto più diffuso, dobbiamo fare i conti con alcuni fattori. Innanzi tutto dobbiamo capire se con il nostro impegno riusciamo a tenere in equilibrio la mission della nostra impresa con le esigenze di impresa; se salta questo equilibrio non siamo più funzionali, rischiamo di chiudere o come dicevo diventiamo erogatori.
Dobbiamo capire se con il nostro lavoro restituiamo voce, protagonismo e potere alle persone e se i modelli di democrazia che proponiamo per le nostre comunità li pratichiamo anche dentro le organizzazioni. Infine dobbiamo comprendere se dove operiamo siamo visti come un pericolo..
Su queste dimensioni io credo sia necessario ridefinire il ruolo del terzo settore, che in questo Paese nasce a partire dalla grande rivoluzione impressa da Basaglia, dal lavoro nei manicomi e da tutto quello che ne è seguito, con il discorso di cura inclusiva dove il terzo settore è la parte integrante di un “pubblico” che attraverso questa idea di cura reimmagina i contesti.