Nel primo anniversario della morte di Zina Mahsa Amini in un carcere di Teheran, le autorità di sicurezza iraniane hanno predisposto un piano di controllo nelle piazze della capitale e soprattutto nella zona curda e nella città natale della ragazza, assassinata dai pasdaran perché aveva un ciuffo di capello fuori posto.
Dopo una repressione feroce contro il dissenso con oltre 500 morti nelle piazze, detenzioni di 20 mila manifestanti, le dure condanne contro le donne che avevano manifestato a capelli scoperti e le condanne a morte (alcune non ancora eseguite), il movimento è entrato in una fase di riflusso.
Dall’inizio di settembre, per prevenire qualsiasi forma di dissenso pubblico, le forze di sicurezza hanno iniziato a minacciare le famiglie delle vittime di gravi conseguenze in caso di partecipazione a eventi di commemorazione, anche in luoghi chiusi. La richiesta della famiglia di Mahsa alla Procura, per un’autorizzazione a commemorare la figlia con una cerimonia sulla tomba, come è consuetudine di tutte le famiglie per ricordare la perdita dei loro cari, è stata respinta. Non solo, ma il cimitero dove è sepolta la ragazza è stato presidiato dalla polizia da diversi giorni.
Secondo fonti degli attivisti iraniani all’estero, nella scorsa settimana sono stati arrestati 40 parenti delle vittime della repressione per impedire commemorazioni pubbliche. La sfida silenziosa delle donne nelle vie e nelle piazze dell’Iran però è un fatto consolidato. Malgrado le multe e le minacce, migliaia di donne si rifiutano di indossare il copricapo e girano per le città a capelli scoperti. “I pasdaran non potranno fare nulla quando milioni di donne si ribellano”, ha detto lo scultore iraniano esule in Francia, Barbad Golshyri. “La rivolta dello scorso anno è stata una rivoluzione culturale contro il dominio dei barbuti che dura dagli anni Ottanta”.