Il 28 settembre si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale per l’aborto sicuro. Un diritto che in Italia è garantito dalla legge 194 del 1978 ma nella pratica non sempre esigibile. Le Legge 194 sulla tutela della maternità e la regolamentazione dell’interruzione volontaria di gravidanza non è stata un prodotto dell’ilarità popolare o del lassismo etico degli anni Ottanta, ma ha ragioni molto piu’ profonde. Non nasce come giornata in ricordo di “quanto sia bello abortire in libertà”, come spesso in molti detrattori affermano. Non esiste un “diritto all’aborto”. Abortire è una possibilità, in termini giuridici. L’aborto legale, gratuito e in condizioni umane, che tuteli la salute delle donne, è un diritto! La Legge 194 nasce da questa specifica esigenza contro la pratica disumana degli aborti clandestini ad opera di mammane e medici che speculavano economicamente sul corpo delle donne. Deve essere chiaro a tutti che la Legge 194 nasce dall’idea di fermare una volta per tutte la strage delle donne che morivano per aborti clandestini non sicuri che causavano emorragie e setticemie.
La Legge 194 nasce anche con lo scopo culturale di rompere le gabbie:
- del familismo di stampo fascista del “parto di Stato”, secondo cui le donne erano uteri che sfornavano uomini per la difesa (leva militare) e il sostentamento (lavoro) della patria;
- del moralismo cattolico e dell’ipocrisia della “doppia morale” che, se da un lato si poneva in sostegno alla vita e colpevolizzava le donne che abortivano per i più svariati motivi (ragazza madre, mancanza di educazione sessuale, la solitudine nella crescita di un bambino, le risorse economiche della famiglia), dall’altro era lo stesso moralismo patriarcale che nelle famiglie cattoliche, per mantenere l’onore di famiglia, per figurare da “buoni genitori cristiani” e per prevenire le malelingue di Paese, volevano che non ci fossero “figlie della colpa e del peccato” e spingevano le loro figlie ad abortire.
All’inizio degli anni Settanta nacquero i gruppi di autocoscienza, ovvero donne che si trovarono a fronteggiare e discutere la loro condizione di donne nelle società moderne. Si discuteva di ogni cosa e tra queste anche la questione dell’aborto. Alcune avevano abortito e la stragrande maggioranza aveva amiche che l’avevano fatto. Nelle grandi città era facilissimo abortire, mentre in Trentino e Friuli le donne le andavano in Jugoslavia. L’aborto clandestino era il mezzo principale di controllo delle nascite ed era praticato in massa, in barba a qualunque educazione sessuale, che poi toccava alle donne pagare sul proprio corpo.
La lotta politica per una legge che regolamentasse l’aborto vide un grande esercizio di democrazia e soprattutto di divisione tra la sinistra, il femminismo e i Radicali Italiani. La campagna dei Radicali parlava di liberalizzazione, di diritto di aborto o di aborto libero; i comunisti e i socialisti pensavano ad una depenalizzazione dell’aborto; mentre l’atteggiamento nei gruppi femministi, pur essendo complesso e diversificato, tendeva ad una regolamentazione precisa. La campagna dei Radicali e quella delle femministe erano molto diverse nel metodo. I Radicali organizzavano manifestazioni tutti i giorni per l’aborto libera senza se e senza ma; mentre i gruppi femministi facevano un lavoro di ascolto ed autocoscienza volto a dare importanza ai vissuti delle donne. Per molte abortire era stata una liberazione, per altre era fonte di sensi di colpa e per altre ancora era stato indifferente. Nel movimento femminista la conclusione era che la salute della donna richiedesse l’assistenza medica: lei avrebbe dovuto decidere se abortire o meno e lo Stato doveva assisterla in ogni sua decisione. Quello che il femminismo combatteva più di tutto era l’irresponsabilità sessuale degli uomini: gli uomini dovevano smettere di mettere incinte le donne e poi proibire l’aborto. Non era un caso che a scegliere sul corpo delle donne, all’epoca erano esclusivamente uomini: gerarchie ecclesiastiche, politici e medici per la maggioranza maschi.
Erano gli anni in cui la “verginità fino al matrimonio” era l’unica educazione sessuale imposta con il tabù cattolico della sessualità, priva di ogni consapevolezza e scoperta del proprio corpo. All’epoca c’erano già gli anticoncezionali, ma erano medicalmente pesanti e non di uso comune e l’aborto clandestino era l’unica via per uscire da un circolo vizioso per le donne di cui non avevano colpa. L’unica colpa era di una società intrisa di cultura che esaltava il perbenismo, il moralismo e l’onore della famiglia. La questione riguardava un’educazione sessuale inesistente che impediva di prevenire maternità indesiderate.
La Legge 194, entrata in vigore il 22 maggio 1978, è stata una conquista femminista fatta di riflessioni etiche, culturali e politiche sulla libertà, sulla salute e sulla maternità che coinvolse non solo le donne che aderivano al femminismo, ma anche molte donne cattoliche. Il movimento femminista non fece mai dell’ilarità sull’aborto, a differenza di quanto sostenuto dai movimenti “pro-life” ultracattolici. Il femminismo ha sempre parlato di drammaticità dell’aborto per le donne. Il tema riguardava la libertà femminile, il fatto che una donna non potesse essere obbligata a diventare madre, che la maternità inizia con un sì e non con una imposizione. Il movimento femminista in Italia ha da sempre sottolineato come l’aborto fosse una possibilità, un fenomeno imposto per molte donne e quindi una necessità. Per le femministe l’aborto non è un diritto, in quanto il diritto ha sempre un contenuto positivo. L’aborto è l’espressione di un rifiuto e un ripiego. La donna che non vuole diventare madre subisce un intervento doloroso sul suo corpo, dunque non sicuramente una passeggiata. La Legge 194 difende il diritto all’aborto legale, gratuito e in condizioni umane, che tuteli la salute delle donne: un diritto, dunque, che permette una possibilità dell’aborto in certe condizioni volte a tutelare la donna.
Oggi purtroppo va di moda, nella destra, nei movimenti ultracattolici, in un certo femminismo liberale e spesso anche nell’opinione pubblica, associare il femminismo all’aborto. Le donne abortivano anche prima, fin dall’Antica Roma e dall’Antico Egitto. Il femminismo ha sempre sostenuto che possano farlo in condizioni umane e non siano colpevolizzate. Inoltre questo binomio è smentito dai fatti in quanto il femminismo, nel mondo, è impegnato sui più vari fronti in difesa delle donne. Per esempio l’ecofemminismo in India è da anni che si oppone agli aborti selettivi dei feti di sesso femminile che, con lo sviluppo dell’amiocentesi, ha permesso il dilagare della mascolinizzazione delle nascite, considerando che è preferibile che nascano più bambini che bambine, in quanto considerati superiori: un fenomeno chiamato “genericidio”[1]. In altre parti del mondo ci sono donne che si battono contro l’aborto forzato, dovuto per esempio alla nascita di troppi figli e dove spesso la parola delle madri è inascoltata.
I femminismi, a livello sociologico, mettono al centro la condizione delle donne ed sono intrinsecamente anti-dogmatici nel portare avanti le proprie battaglie. La Legge 194, in Italia, è frutto del suo contesto socio-culturale di cui il femminismo è stata la giusta risposta contro una “morale del sabato” – come la definirebbe la teologa Adriana Zarri – lontano dai vissuti delle persone, dalle loro necessità e dalla realtà che si trovano a vivere.
La proibizione dell’aborto, come qualche settore reazionario vorrebbe da noi, esattamente come gli aborti forzati e i genericidi sono frutto della stessa mentalità patriarcale e materialista volta a considerare la donna non come “persona” e quindi come soggetto di libere scelte, ma come semplice “funzionaria della specie”, “in barba a tutti i valori spirituali che si vorrebbero difendere con la proibizione generalizzata della pratica dell’aborto” – come direbbe Umberto Galimberti[2]. “L’aborto è solo il drammatico epilogo di questa lacerante contraddizione, che viene prima di tutte quelle giustificazioni razionali, assolutamente da non trascurare, che sono l’età in cui si resta incinte, il numero dei figli già nati, le risorse economiche della famiglia, il costo delle abitazioni, la scarsa disponibilità di nidi e di asili, la sempre maggior difficoltà delle famiglie nucleari di oggi di farsi aiutare” – scriveva Galimberti – e il “compito dello Stato non è costruire la “città ideale”, ma ridurre il più possibile il male nella “città reale””.
Purtroppo oggi l’applicazione della Legge 194 in Italia è spesso impedita dal diritto di obiezione di coscienza, a cui molti medici si appellano, impedendo alle donne di accedere a questo servizio. Un’obiezione che ben presto, come ci ricordava Michela Murgia, è diventata “omissione di coscienza” che paralizza un servizio a causa della manza di medici che lo applicano.
Nonostante ciò, ad oggi, la Legge 194, approvata più di quarant’anni fa con un referendum degli italiani con il 68% di consenso (quindi di gran parte anche dell’elettorato cattolico), oltre a rendere drasticamente marginali gli aborti clandestini, ha ridotto del 40% le pratiche abortive.
Dobbiamo dire che questa legge 194 ha funzionato ed è entrata nella sensibilità comune degli italiani e soprattutto nel vissuto delle donne, sul cui corpo nessuno Stato, nessun vescovo, nessun medico e nessun marito può decidere.
[1] https://www.ingenere.it/articoli/la-cancellazione-delle-bambine-il-problema-irrisolto-del-genericidio
[2] https://www.feltrinellieditore.it/news/2008/01/11/umberto-galimberti-aborto–diritto-delle-donne-9465/