Decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade di New York il 17 settembre per la Marcia contro i combustibili fossili e il movimento per la giustizia climatica sembra più organizzato che mai. Ma c’è un enorme problema che viene continuamente ignorato e si chiama Pentagono.

L’apparato militare degli Stati Uniti è il più grande consumatore istituzionale di petrolio del mondo, per via delle emissioni dell’effetto serra che superano quelle di 140 nazioni messe insieme e totalizzano circa un terzo del consumo dei combustibili fossili in America. Il Dipartimento della Difesa usa inoltre enormi quantità di gas naturale e carbone, oltre alle centrali nucleari nelle sue basi in tutta la nazione. Come possiamo pretendere che gli Stati Uniti possano essere partecipi di un movimento il cui scopo è porre fine all’uso dei combustibili fossili e proteggere il nostro pianeta, se una delle loro istituzioni sta causando un simile caos senza assumersi alcuna responsabilità? La risposta è: non possiamo.

Finché continueremo a ignorare il ruolo del Pentagono nell’aggravarsi del cambiamento climatico, la nostra battaglia per proteggere il pianeta sarà incompleta. Rischiamo anche di indebolire la nostra stessa capacità di incidere, se non consideriamo il fatto che una spesa militare di quasi tre mila miliardi di dollari sottrae talmente tante risorse alla gente, da ridurre la sua capacità di attivarsi per la giustizia climatica, imponendo condizioni di vita nel segno dell’estrema disuguaglianza economica.

Mentre le autorità degli Stati Uniti pretendono che il consumatore medio sia responsabile del proprio impatto ambientale, per esempio incoraggiando la transizione ai veicoli elettrici o vietando le lampadine a incandescenza, essi non si assumono alcuna responsabilità circa l’enorme impatto che le forze armate producono in giro per il pianeta. Dai falò di rifiuti in Iraq, all’uso di uranio impoverito e bombe a grappolo in Ucraina, fino al sempre più crescente elenco delle basi militari in patria e all’estero: l’apparato militare degli Stati Uniti non solo sta distruggendo il proprio Paese, ma sta devastando comunità indigene e Stati sovrani mediante un estremo degrado ambientale.

Secondo l’Environmental Working Group, «è probabile che più di 700 insediamenti militari siano inquinati con le “sostanze chimiche eterne” conosciute come PFAS». Ma il problema va ben oltre l’acqua potabile. In Giappone, gli indigeni ryukyuani stanno opponendo resistenza all’ennesima base militare in costruzione nell’isola di Okinawa. La nuova base minaccia fortemente il fragile ecosistema mantenuto con difficoltà dai ryukyuani. Il danno al loro ecosistema marino coincide naturalmente con l’avvelenamento dell’acqua potabile: una battaglia che le Hawaii e l’isola di Guam conoscono molto bene.

Tutti questi fattori che contribuiscono al cambiamento climatico sono presenti in zone “prive di conflitti”, ma quale impatto possono avere le forze militari statunitensi nelle zone di guerra? Prendiamo per esempio la guerra tra Russia e Ucraina, appoggiata dagli USA con aiuti che ammontano a migliaia di miliardi di dollari. Recentemente la CNN ha documentato che «un totale di 120 milioni di tonnellate di inquinamento, che genera riscaldamento globale, può essere attribuito ai primi dodici mesi di guerra». Ha spiegato che queste misure sono «equivalenti alle emissioni annuali del Belgio, o a quelle prodotte in un anno dalla circolazione di 27 milioni di auto a benzina». Il danno non finisce qui. La guerra in Ucraina ha compromesso i gasdotti con conseguenti fughe di metano; è considerata causa di morte dei delfini e danneggia l’ambiente marino; ha causato la deforestazione, la distruzione di aree coltivabili e la contaminazione dell’acqua; ha incrementato la produzione di energie inquinanti come il carbone. Inoltre implica la minaccia imminente di fughe di radiazioni e di catastrofe nucleare. Continuare questa guerra significa continuare l’ecocidio. Dobbiamo sforzarci di porvi fine ora e senza ulteriori morti e distruzione.

Gli Stati Uniti non stanno solo alimentando l’attuale crisi climatica, la stanno anche finanziando a nostro rischio e pericolo. Il Pentagono usa fino al 64% delle spese a disposizione del governo (che includono ad esempio istruzione e sanità). Stanno spendendo il nostro denaro che potrebbe essere usato per finanziare progetti sociali, per continuare questo disastro climatico.

L’americano medio, in particolare chi fa parte delle comunità nere, di colore e povere, è costretto a pagare per una guerra infinita e per il degrado ambientale attraverso tasse, tariffe e bollette sempre più alte. Il cambiamento climatico è una minaccia alla sicurezza nazionale, con il rischio di colpire la stabilità globale e la fornitura dei servizi essenziali da parte dei governi. Ricordate il presagio della vicepresidentessa Kamala Harris: «Per anni sono state combattute guerre per il petrolio; in breve tempo si combatteranno guerre per l’acqua».

La missione principale del Pentagono è prepararsi contro eventuali attacchi dagli avversari, ma non c’è certezza che gli “avversari” degli Stati Uniti (Russia, Iran, Cina e Corea del Nord) scaglino un attacco. E un’enorme forza militare permanente non è l’unico modo per ridurre le presunte minacce da parte di questi avversari, che hanno apparati militari incomparabilmente più piccoli. «Mentre cerca di spaventare gli americani con queste “minacce” ipotetiche, il governo si rifiuta di riconoscere il pericolo reale affrontato ogni giorno dalle comunità di tutto il mondo, a causa del cambiamento climatico».

La crisi climatica sta succedendo adesso, e le conseguenze sono evidenti. Negli Stati Uniti il cambiamento climatico sta già contribuendo alla siccità e agli incendi in California, Louisiana e nelle Hawaii. Il livello del mare in crescita minaccia le comunità costiere; l’aumento delle temperature probabilmente incrementerà i disordini civili e accentuerà il numero delle morti al lavoro.

Dobbiamo agire adesso, promuovendo la pace e la cooperazione in tutto il pianeta. Dobbiamo dirottare le spese dalle basi militari e dalle guerre, alle misure per contrastare la crisi climatica. Altrimenti saranno guai…

Ci serve una piattaforma per la giustizia climatica, che ribadisca la richiesta di finirla con le guerre nel mondo come a casa nostra. Bisogna finirla una volta per tutte con la cosiddetta war on terror (guerra al terrorismo) che è costata migliaia di miliardi di dollari, ha ucciso milioni di persone e ha creato un ciclo infinito di violenza e instabilità in tutto il mondo.

Dobbiamo smetterla di spendere miliardi in armamenti progettati per combattere nemici immaginari. Dobbiamo lavorare fianco a fianco con tutte le nazioni per affrontare la questione climatica. Senza escludere le nazioni ritenute nemiche e il cosiddetto ‘Sud Globale’, che stanno sopportando il maggior peso della crisi climatica.

Dobbiamo garantire che le nostre tasse vengano spese per ciò che consideriamo più importante: il che significa porre fine alle guerre infinite e al degrado ambientale. Ci serve un “Green New Deal” che sposti i fondi federali dalla spesa militare verso priorità nazionali come la sanità, l’istruzione e i progetti d’infrastrutture.

Sul fronte della battaglia per la giustizia climatica, il Pentagono è il proverbiale “elefante nella stanza”. Non possiamo continuare a ignorare la sua enorme impronta ecologica. È semplice: per difendere la Terra dobbiamo subito porre fine alle guerre. La pace non può più essere vista come qualcosa di utopico: è una necessità. Ne va della nostra sopravvivenza.

Traduzione dall’inglese di Mariasole Cailotto. Revisione di Daniela Bezzi


Melissa Garriga è responsabile della comunicazione e dell’analisi dei media per CODEPINK. Scrive sull’intersezione tra militarismo e il costo umano della guerra.

Tim Biondo è responsabile della comunicazione digitale per CODEPINK. Ha conseguito la laurea triennale in Studi per la Pace presso la George Washington University. I suoi studi si sono concentrati sulla comprensione critica di questioni come la pace, la giustizia, il potere e l’impero.

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