L’orizzonte teorico e pratico entro il quale collocare sia le analisi e le prospettive della nostra epoca che il nostro agire è dato dalla crisi climatica e ambientale. Non la si può eludere né mettere in secondo piano, pena il ritrovarsi a dover fare i conti con contesti che non si padroneggiano più e in cui nemmeno ci si riconosce. Ci schieriamo e battiamo per obiettivi specifici che attengono alla giustizia sociale (l’eliminazione o la riduzione di tutte le diseguaglianze che minano la dignità dell’essere umano) e a quella ambientale (le condizioni che permettono agli ecosistemi di rigenerarsi), ma dobbiamo adoperarci per ricondurli sempre al contesto della crisi generale planetaria. In linea di principio è un’operazione semplice: tutto ciò che accelera o favorisce l’aggravarsi della crisi va respinto, combattuto, cambiato o trasformato: viva i “NO”. I No servono. Tutto ciò che ritarda, ostacola o cerca di invertire gli sviluppi della crisi va promosso e favorito.
Naturalmente la prima cosa da evitare e combattere è la guerra tra Stati, ma è un capitolo a parte, e qui non ne parliamo. Le prime e principali vittime della crisi climatica e ambientale sono i poveri e gli esclusi in tutti i Paesi del mondo e in tutti gli ambiti: ciò che rende di fatto la rigenerazione della Terra condizione ineludibile del loro riscatto, di una maggiore giustizia sociale. E viceversa: sono loro che hanno un interesse prioritario a invertire rotta: papa Francesco, nell’enciclica Laudato sì, lo mette in evidenza fin dai primi paragrafi.
Però tutto ciò richiede un vaglio delle analisi, dei programmi e degli obiettivi che non viene mai fatto o viene messo in subordine ad altre priorità, che certo premono, ma che rischiano sempre di venir soffocate, prima o dopo, dagli sviluppi della crisi: un’alluvione che distrugge un intero Paese, una siccità che lo desertifica, una crisi settoriale – per esempio dell’agricoltura o del turismo – che ne vanifica le prospettive occupazionali, una migrazione che non era stata messa in conto, ecc. Per questo “fare politica oggi” richiede una continua opera di traduzione delle misure per far fronte alla crisi climatica e ambientale in termini che rispondano ai bisogni concreti delle persone e della loro condizione e viceversa, una traduzione del vasto arco di obiettivi su cui si sono tradizionalmente concentrate le teorie e le prassi che miravano alla trasformazione della società in pratiche che concorrano a far fronte tanto alle cause che alle conseguenze della crisi climatica e ambientale.
Quest’opera di traduzione è l’unica cultura all’altezza dei tempi: una cultura che richiede a tutti e in termini ultimativi, un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla Terra: premessa ineludibile per l’uscita dall’antropocene, che certo è “capitalocene”, ma che è anche qualcosa, anzi molto, di più. Tutto ciò richiede più e non meno “radicalità” di quella che aveva caratterizzato anche le più impegnative e creative prassi dei decenni e dei secoli scorsi.
La crisi climatica, ambientale e sociale già in corso è destinata ad aggravarsi. Le emissioni climalteranti non si fermano e la Terra continuerà comunque a riscaldarsi per anni. Gli eventi estremi si moltiplicheranno. Cambierà necessariamente la nostra vita quotidiana, volenti o nolenti.
Tutto ciò mette all’ordine del giorno della lotta al cambiamento climatico, facendone una priorità, non solo le misure di mitigazione volte a ridurre e arrestare le cause della crisi, ma soprattutto quelle tese all’adattamento alle condizioni sempre più difficili in cui si svolgerà la vita quotidiana, soprattutto quella delle persone più fragili, delle classi sociali più sfruttate, delle comunità più esposte al degrado. Non saranno i governi a prendersene cura e meno che mai le imprese. A prendersene cura dovranno essere le tante e diverse iniziative di movimenti che nascono dal basso e che già oggi vediamo all’opera: sia nelle zone colpite da un disastro ”naturale”, come in Romagna, sia in quelle esposte a una devastazione palesemente e pervicacemente perseguita, come il TAV in Valsusa. Territori dove dalla solidarietà “spontanea”, ma in realtà consapevole e ben organizzata dal basso, che si manifesta nel reciproco aiuto di fronte all’”emergenza” nasce un allargamento dello sguardo che investe la serie delle concause che l’hanno resa possibile.
Ma alcune cose emergono comunque dalla prospettazione di questa trasformazione: il primo punto è la valorizzazione e la priorità della cura, dei lavori di cura, delle attività legate alla riproduzione, non solo quella biologica e materiale, ma anche e soprattutto quella sociale – cioè la creazione, il mantenimento e il potenziamento dei legami che tengono unita una comunità in lotta. Un’attività in cui, anche qui, come in tutto ciò che viene tradizionalmente classificato come “lavoro riproduttivo”, prevale il ruolo delle donne – rispetto al lavoro cosiddetto produttivo, che è sempre e solo produttivo di merci, di valore di scambio, di profitto, non necessariamente condannato alla scomparsa, ma sicuramente destinato a un ruolo subordinato rispetto alla priorità della cura.
Ciò mette in discussione l’obiettivo della “crescita”: crescita della produzione di valore, del PIL, che è il termine con cui viene nominata quella che Marx chiamava accumulazione del capitale. All’abbandono dell’obiettivo o, meglio, dell’orizzonte della crescita è legato quello dello “sviluppo” – spesso accompagnato dalle “ineludibili” qualifiche di “umano”, “sostenibile”, “ecologico”, ecc. Ne sono il volto presentabile, ma che non lo disgiungono mai dalla crescita, che ne è la condizione irrinunciabile. Ma viene meno anche il riferimento al “progresso” e al suo derivato “progressista” usato per lo più a sproposito. Sono termini legati alla concezione di uno sviluppo lineare del processo storico che pone una civiltà, una cultura, un’organizzazione sociale (di fatto, quella capitalistica e occidentale) al di sopra di quelle che l’avrebbero preceduta, e che a volte sono sopravvissute, dimostrando la loro vitalità e la loro resilienza, al tentativo di estinguerle.
Articolo tratto dalla relazione che l’autore terrà il 20 ottobre 2023 a Roma al convegno “Il collasso della Biosfera e i compiti della politica”.