Con una certa amarezza non si può che constatare il disastro causato da un atteggiamento sempre più dilagante di adattamento agli stravolgimenti che da diversi anni piovono dall’alto della gestione pubblica e intaccano i residui legami tra gli esseri umani e i fragilissimi tessuti comunitari. In un disordine che sembra non lasciare vie di uscita dai continui squilibri apportati dalla sete di potere e di profitto e dallo smantellamento delle garanzie a tutte le cittadine e a tutti i cittadini di accedere ai servizi fondamentali, queste forme di assuefazione alle condizioni attuali sfociano spesso sotto i nostri occhi nell’indifferenza, erigono muri che separano, ostruiscono menti e cuori finendo così con l’attivare ossessive mediazioni meccaniche che hanno lo svantaggio di farci cadere e ricadere in acque stagnanti, dove si pescano le solite trite soluzioni spacciandole per nuove e aggravando di fatto lo stato delle cose.
Qui e ora occorrerebbe invece respingere questa logica alienante e disumanizzante che ci rende tutte/i subalterni servili ideando proposte originali e attingendo risorse vitali che permettano di porre un freno alle ingiustizie e di tenere vive le relazioni con le altre e gli altri. In altre parole, al contrario di quanto accade tutt’intorno, necessitiamo meno di tecnicismi e più di mediazioni creative, di vere e proprie opere d’arte da plasmare nel laboratorio vivente dell’essere al mondo individualmente e dello stare nel mondo con altre/i. Si tratta di una questione che investe le e i singoli in tutti gli ambiti e spazi della convivenza sociale; si tratta di spegnere le passioni tristi e di svegliarsi alla realtà delle cose e a una realtà autentica che non è di questo mondo; si tratta di cogliere e assaporare con gioia il vivente, di trarre energia dalle bellezze che ci circondano – materiali e immateriali – e di riversarla nella cura dei beni comuni naturali e culturali, una cura che può restituirci «l’amore necessario a coltivare ciò che in noi è ancora umano», come scrive lo storico dell’arte, nonché rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari nel suo libro Se amore guarda, in cui propone Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale (Einaudi, 2023).
Donne e uomini che abitano i territori del mondo, non clienti o spettatori
Da decenni assistiamo a una destinazione d’uso dei beni culturali comuni che in luogo di tutelarli ne fa beni-merce a fine di lucro, senza capire che in questo modo procuriamo un danno alla funzione che essi hanno in seno alle comunità piccole o grandi in quanto patrimonio avente valore di civiltà, nel rispetto dell’art. 9 della Costituzione ( «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione») e come del resto si legge perfino nel «Codice dei beni culturali e del paesaggio» del 2004. Le scelte politiche in materia sono andate e continuano ad andare in direzione opposta, basta pensare alla riforma del Ministero dei Beni Culturali del 29 agosto 2014, « ispirata a un principio “consumista”, che cioè i nostri musei non incassino abbastanza, e non nata da una disamina legittima degli eventuali errori di conduzione di soprintendenti e direttori», come sottolineato dal critico bolognese Umberto Barilli; una riforma secondo Salvatore Settis all’insegna del Non più cittadini, ma clienti o spettatori, diretta più alla valorizzazione delle imprese e dei «negoziati in penombra fra poteri politici ed economici» che alla tutela dei beni culturali e paesaggistici. Vale la pena di continuare a porre queste domande: ha avuto un senso «riorganizzare le Soprintendenze» mentre veniva smontata «la loro competenza più importante, la tutela del paesaggio»? ha avuto un senso farlo per di più «al ribasso, cioè con le forche caudine di una spending review»? E con quale risultato? Questo: «un balletto di poltrone, una danza di etichette, un calo di funzionalità e di efficienza».
Prima di entrare nel merito della proposta di Tomaso Montanari, mi preme evidenziare anche gli effetti di un’altra disgraziatissima riforma, quella della ministra Gelmini, allora berlusconiana, che ha demolito l’università italiana secondo un procedimento analogo (abolizione delle Facoltà rinominandole Dipartimenti, introduzione di macchinose procedure di reclutamento, decimazione delle cattedre, ulteriore precarizzazione degli insegnanti, taglio dei fondi per la ricerca con la conseguente fuga delle giovani e dei giovani all’estero, dove hanno trovato condizioni di vita e di lavoro degne e dignitose). E non tralascio di richiamare alla memoria la scellerata «valorizzazione in salsa franceschiniana» delle nostre Biblioteche pubbliche tesa a disperdere il tesoro lì custodito. Ebbene, se abbiamo davvero a cuore la tutela e la conservazione del nostro patrimonio culturale e ambientale, non potrà che essere benefico rivoltarsi e scrollarsi di dosso il peso dell’assuefazione, uscire dalla condizione di letargo, impegnarsi in un mutamento di visione, battersi concretamente contrastando la deregulation selvaggia della sua tutela, rilanciando le Soprintendenze come enti di ricerca territoriale, richiedendo investimenti adeguati e non balletti di poltrone, assunzioni di giovani di qualità e non un personale raccattato come capita capita, per poterlo sottopagare o non pagare affatto…
Amore, sguardo, corpo/corpi
Ha ragione Montanari nel commentare la recente vicenda della Madonna di Santa Fiora di Luca della Robbia rientrata in Italia dopo l’acquisto da parte dei nuovi proprietari, i coniugi Esteves, e conservata nella loro tenuta di Argiano nei pressi di Montalcino, non lontano da Santa Fiora: «Il patrimonio culturale è una geografia di cicatrici, di perdite, di sottrazioni ma è anche dunque un corpo da curare e ogni piccolo intervento di cura, come questo, ci permette di capire il grande amore che tutti abbiamo per quello che chiamiamo, in un modo un po’ astratto, patrimonio culturale ma che è, in realtà, il corpo più grande a cui tutti i nostri corpi appartengono. Questo risarcimento, questo atto di cura e di amore è quindi un modo diverso per vedere e per guardare quello che costantemente abbiamo sotto gli occhi. Per questo è davvero importante», conclude, la mostra in corso nel borgo amiatino, occasione per una fruizione pubblica, anche se temporanea.
La triade amore, sguardo, corpo/corpi costituisce la cuspide di congiunzione delle diverse riflessioni che in modo fluente si dispiegano nelle pagine dell’ultima fatica di Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un titolo azzeccato per «una preghiera a voce bassa in una chiesa amica» (p. VIII), la cui fonte è nell’asserzione di Carlo Levi – «se gli occhi guardano (se amore guarda), essi vedono» – presente in un saggio destinato ad accompagnare gli scatti in bianco e nero degli anni Cinquanta del fotografo ungherese János Reismann e pubblicato nel 1960 da Einaudi con il titolo Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia. Questa asserzione dà la chiave con la quale leggere il volume, direi anzi l’intero filo che da anni Montanari avvolge intorno a un’altra Italia che può essere resa visibile soltanto da uno sguardo amorevole.
Lo dimostra il riferimento dello storico dell’arte già nel lontano 2016 al libro di Levi a proposito della Val di Susa in un suo breve scritto che si flette poi sulle tante «violenze inflitte a questa terra dal grumo di interessi che si chiama Tav» e in particolare sull’«immagine falsa di una guerra permanente», dando notizia di un piccolo progetto partito dall’abbazia di Novalesa intorno agli spazi del sacro e al patrimonio culturale religioso e orientato a mostrare ai «nuovi valsusini venuti dal Maghreb o dalla Romania» un volto dell’Italia come esito del lento lavorìo di «acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italiana» nelle quali nuotare, un volto dunque non fissato in radici identitarie a cui vincolarsi. Un’Italia in definitiva non fondata sul sangue ma sulla varietà dei paesaggi, ovvero sulla pluralità dei territori trasformati dalla storia.
E dalla «felicissima agnizione» dell’autore di Cristo si è fermato a Eboli Montanari trae ispirazione per svelare che il significato da attribuire al patrimonio culturale non consiste solo nell’«insieme di ciò che si è fatto lungo i secoli», giacché vi si racchiude anche «ciò che lungo quegli stessi secoli si è visto» (p. 45). E ciò che si è visto dipende dal modo in cui si è guardato e si guarda. Oggi probabilmente più che in passato – ma non ne sarei proprio sicura – uno sguardo educato a recepire l’invisibile e l’inudibile potrebbe più facilmente accogliere nella propria visione i tanti fragili e feriti, i tanti senza storia marginali, i cui nomi sono rintracciabili nei documenti degli archivi, seppure alla condizione dettata da Aby Warburg: se lo storico «non sdegna la fatica di ricostruire la naturale unità fra parola e immagine», unità che Montanari definisce come «l’essenza stessa del patrimonio culturale» (p. 51).
Emotivamente coinvolgente per me che scrivo da una Sicilia devastata dai fuochi del luglio 2023 ho trovato il riferimento a Aidone, il piccolo comune in provincia di Enna, dove insieme ai tantissimi reperti provenienti dall’area archeologica di Morgantina è conservata e venerata «una dea scolpita nella pietra di quei luoghi, ma nello stile di Fidia, avvertendo che il mito, e la Grecia, sono proprio lì»(p. 87). E ancora più toccanti sono le pagine tratte dal racconto dello scrittore ucraino-russo Vasilij Grossman dedicate alla Madonna Sistina di Raffaello tratte da Il bene sia con voi! (Adelphi, 2011): «… chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela, profonda e indistruttibile, ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie. […] La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità. […] Ogni epoca fissa lo sguardo su questa donna con il bambino in braccio, e fra esseri umani di generazioni, popoli, razze e secoli diversi si instaura un senso di fratellanza, dolce, commovente e doloroso insieme. […] La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni, sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta…» (pp. 91-92).
Sulla scia di Grossman e di altri critici d’arte come pure di filosofe/i, scrittrici e scrittori, poeti/e, Montanari attribuisce in definitiva al patrimonio culturale, all’ «educazione sentimentale» alla sua fruizione la possibilità di sospendere il tempo dell’immediatezza, di sostare nella contemplazione, di entrare in contatto con la potenza della vita, «con la forza dell’umano», in una comunione tra vivi e morti; attribuisce la possibilità di dare un nuovo significato alle cose, di riappropriarsi del senso della misura e del limite, di «liberarci delle scorie mortifere della volontà di potenza, tendendo all’essenziale, a ciò che è rimasto» (p.99), e di avvertire attraverso «le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono […] che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate» (p.100), la possibilità che le cose belle penetrino in noi per osmosi, come accadeva a Simone Weil durante il suo primo viaggio in Italia nella primavera del 1937 (p. 18).
A questo proposito bisognerebbe altresì a mio parere tenere a mente e custodire nel cuore l’insegnamento della filosofa francese là dove coniuga la bellezza con il desiderio e con l’attenzione e fa di essa la sorella e l’alleata della verità e della giustizia: «La bellezza è il mistero supremo di quaggiù. È uno splendore che attira l’attenzione, ma non le fornisce alcun movente per durare. La bellezza promette sempre e non dona mai alcunché; suscita una fame, ma in essa non vi è alcun nutrimento per la parte dell’anima che cerca di saziarsi quaggiù; ne ha solo per la parte dell’anima che guarda. Suscita il desiderio, e fa sentire chiaramente che non ha in se stessa alcunché da desiderare, perché importa anzitutto che in essa nulla cambi. Se non si cercano espedienti al tormento delizioso che essa infligge, il desiderio si trasforma a poco a poco in amore, e un germe della facoltà di attenzione gratuita e pura prende forma. […] la bellezza è percepibile all’interno della cella ove ogni pensiero umano si trova all’inizio prigioniero. La verità e la giustizia dalla lingua mozzata non possono sperare in altro soccorso se non nel suo. Giustizia, verità, bellezza sono sorelle e alleate».
1) Colgo l’occasione con questo articolo di esprimere la mia stima nei confronti di Montanari che non si è adeguato a forme di incensamento non dovute, rifiutandosi di abbassare la bandiera dell’università di cui è rettore, in occasione del funerale e lutto di Stato disposto dal Governo per la morte di un personaggio politico che era stato non solo iscritto alla P2 ma anche condannato definitivamente per evasione fiscale e il cui comportamento sessuale fu a suo tempo denunciato nelle piazze di tutt’Italia da tantissime donne e in due lettere pubbliche anche dalla seconda moglie, Veronica Lario (rimando a questo proposito a https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/piu-dei-processi-pote-la-moglie).
2)https://parma.repubblica.it/cronaca/2014/10/17/news/se_la_riforma_delle_soprintendenze_crea_burocrazia_e_disfunzioni-98317816
3) https://left.it/2018/07/22/ce-un-tesoro-da-salvare-dentro-le-biblioteche/
4) https://www.stamptoscana.it/torna-a-casa-la-madonna-di-santa-fiora-di-luca-della-robbia/