Il governo della presidente Giorgia Meloni continua ad essere particolarmente afono sulla sanità e a non considerare colpevolmente lo smantellamento di fatto e definitivo del Servizio Sanitario Nazionale. Le risorse stanziate dal governo dal 2023 al 2025 sono assolutamente insufficienti e dimostrano come il sottofinanziamento della sanità sia ormai diventato strutturale: l’ultimo Def mette nero su bianco che da ora al 2025 la spesa sanitaria scenderà al 6,2% del Pil, ovvero a circa la metà della percentuale di Francia e Germania, mettendo seriamente a rischio l’accesso di tutti i cittadini ai servizi sanitari, come previsto dalla nostra Costituzione. L’allarme reiterato sulla sanità che si avvia verso il default non è prerogativa di una parte politica, dell’opposizione, o dei soliti “gufi”.
Oltre all’Ocse, che ha ammonito che se non si investe in sanità è a rischio il benessere e la tenuta sociale e ha stimato che la spesa dovrebbe aumentare dell’1,4% del Pil rispetto al 2019, che per l’Italia vorrebbe dire 25 miliardi di € in più all’anno e oltre ai cittadini che quotidianamente sono costretti a fare i conti con i servizi della salute che non ci sono, funzionano male o non funzionano affatto, sono i presidenti di Regione, a stragrande maggioranza di centrodestra, a chiedere più risorse stabili su ambito pluriennale per scongiurare di dover chiudere ospedali e presidi sanitari.
Qualche Regione è andata anche oltre, passando dalle richieste (che tardano ad avere riscontri) alle proposte. E’ il caso della Regione Emilia-Romagna, che ha avanzato la proposta di legge di iniziativa regionale rivolta al Parlamento, per assicurare al Sistema Sanitario Regionale un’adeguata copertura finanziaria in grado di raggiungere quella sostenibilità finanziaria che oggi manca. La proposta di legge prevede un incremento del Fondo Sanitario Nazionale di 4 miliardi all’anno per i prossimi 5 anni, con l’obiettivo di attestare lo stesso al 7,5 % del PIL nazionale. Anche nella Regione Lazio i consiglieri regionali Mattia e Ciarla hanno presentato una proposta di legge simile a quella emiliano-romagnola e speriamo che l’iniziativa possa essere mutuata anche da altre Regioni. A dimostrazione della necessità di rilanciare il servizio pubblico, ricordiamo che in Lombardia – la regione in cui in questi anni il “privato” ha maggiormente conquistato terreno a scapito del “pubblico” – oltre 100 elettori promotori hanno presentato un referendum abrogativo regionale impostato su tre quesiti relativi all’attuale legislazione regionale per ridare preminenza al servizio sanitario. L’obiettivo è riportare al pubblico la funzione di programmazione, di controllo pieno della erogazione dei servizi a partire da quelli di prevenzione, garantendo universalità di accesso, gratuità e partecipazione.
Occorre una forte e convinta partecipazione delle cittadine e dei cittadini, a livello regionale (vedi Lombardia), come su scala nazionale, per difendere il Servizio Sanitario Nazionale e la nostra salute. E potrebbe essere molto importante – come sottolineano dalla Regione – accompagnare l’iter della proposta di legge dell’Emilia-Romagna con una sensibilizzazione istituzionale, politica, sociale e popolare. Per questo, nelle prossime settimane sarà attivata una piattaforma digitale per la raccolta delle adesioni. Per saperne di più, per leggere la proposta di legge e per sostenere l’iniziativa della Regione Emilia-Romagna.
Del diritto alla salute per tutte e tutti, da Nord a Sud, senza disuguaglianze, con un’attenzione maggiore alle persone più vulnerabili, alle nuove povertà, ai cittadini e alle cittadine ai margini si è parlato anche al Sinodo valdese tenutosi a Torre Pellice (TO). L’organo decisionale delle chiese metodiste e valdesi ha infatti approvato un atto dal titolo “Per una salutare uguaglianza”, nel quale si sottolinea l’importanza del servizio sanitario nazionale, anche come elemento fondante della democrazia. Di fronte ai tagli previsti per questo comparto, le chiese valdesi chiedono un’inversione di tendenza e un rapporto tra Regioni e Stato che possa ridurre e non aumentare il divario tra Nord e Sud, come invece potrebbe fare l’autonomia differenziata, oltre alla necessità di rivedere il tema del rapporto tra pubblico e privato. Circa 10 milioni di persone che hanno in Italia una ‘mutua esterna’ infatti non solo rappresentano un elemento improprio- perché l’accesso dovrebbe essere a un sistema universalistico- ma un fattore che indebolisce anche il sistema stesso del servizio pubblico.
Nel documento del Sinodo valdese si auspica “che le autorità e gli organismi responsabili si facciano parte diligente per:
- un servizio sanitario nazionale adeguatamente finanziato (è programmato un calo di valore in proporzione al Pil del 6,8% nel 2023, per scendere a 6,4% nel 2024 e 6,2% nel 2025/2026)
- un servizio sanitario nazionale strutturato sui territori per l’assistenza primaria indispensabile non solo in situazioni ordinarie (vedi Covid-19)
- un nuovo equilibrio istituzionale fra Stato e Regione che riduca, anziché aumentare, le differenze territoriali di accesso alle cure, mentre le ipotesi in discussione (autonomia differenziata) sembrano andare in direzione opposta
- la ridefinizione del rapporto pubblico-privato salvaguardando la centralità della governance pubblica, con attenzione all’efficacia e all’efficienza e contenendo meccanismi che favoriscono speculazioni private
- l’attenzione al contenimento degli sprechi: iperprescrizione di farmaci, ripetizione di accertamenti, appesantimenti burocratici e simili.
Per rivedere la conferenza stampa e per tutti i materiali sul Sinodo: www.nev.it; www.rbe.it; www.riforma.it; www.chiesavaldese.it