Lezione di resistenza nonviolenta dei bambini dell’Aida Refugees Camp ai militari israeliani
Aida è uno dei 3 campi profughi presenti a Betlemme, in Cisgiordania. Ospita oltre 5.500 persone in meno di un chilometro quadrato. È delimitata dal muro della separazione, alto 8 metri, da una base di addestramento militare israeliana e da 7 torri di controllo.
La scorsa estate, in un pomeriggio assolato e caldo come tanti in West Bank, una ventina di bambini rideva e scorrazzava felice in sella alle proprie biciclette nell’area di al-Moftah, che si trova all’entrata est del campo profughi di Aida, uno slargo, uno dei pochi spazi all’aperto dove poter giocare. Per rendere più avvincente il ritrovo, i bambini gareggiavano con le bici, andando su e giù sotto il grande arco di accesso al campo, sovrastato da un’enorme chiave, simbolo del diritto al ritorno a casa per i palestinesi.
All’improvviso il varco militare nel muro di separazione, in prossimità dell’arco, si apre ed escono alcune jeep dell’esercito israeliano che iniziano a percorrere l’area di al-Moftah. I bambini, spaventati dall’irruzione, scappano a nascondersi. Alcuni, nella contingenza e nel panico, lasciano le loro bici a terra e corrono via. I soldati allora raccolgono le bici lasciate, le caricano sulle jeep e rientrano nella base, serrando dietro di loro l’immenso varco di ferro.
Passano pochi lunghissimi minuti. I bambini fanno capolino dai nascondigli, ma tutto resta immobile. Si guardano increduli e arrabbiatissimi: “Non possiamo accettarlo, rivogliamo le nostre bici indietro”. Si dirigono verso il varco e iniziano a bussare con energia sul portone di metallo, mossi da un’audacia irrefrenabile. Gli attivisti volontari dell’Aida Youth Center, che si trova lì accanto e che avevano assistito all’accaduto, invitano i bambini a smettere, il rischio di rappresaglie violente è troppo alto. Ma loro continuano a bussare. Dopo un po’ il varco si apre, esce il comandante capo e chiede loro cosa vogliono. “Vogliamo le nostre bici indietro, sono nella base, le hanno prese i soldati.” “State insinuando che i miei soldati sono dei ladri?” Chiede il comandante. La risposta dei bambini è spiazzante: “No, se ci ridate le bici indietro, i soldati non sono dei ladri. Vada lei a controllare se le nostre bici sono lì. I nostri genitori hanno fatto sacrifici per comprarle, sono il nostro unico gioco, non possiamo rinunciarci.” Il comandante si prende 15 minuti per verificare nel magazzino del campo. I bambini nell’attesa si mettono seduti in cerchio, davanti al varco. Gli attivisti del Youth Center si uniscono e insieme intonano canti di pace. Trascorsi 15 minuti esatti, i bambini tornano a bussare sul grande cancello in ferro che a quel punto si riapre e il comandante restituisce loro le bici sequestrate. La gioia sui volti dei bambini in foto racconta il lieto fine di questa coraggiosa storia di resistenza nonviolenta.
La narrazione per disegni, qui riportata, è stata un’idea dei bambini ed è conservata presso l’Aida Youth Center. Intende conservare memoria dell’accaduto e, soprattutto, comunicare la forza di questa generazione che non intende rinunciare alla propria terra e ai propri diritti, compreso quello al gioco.
Attraversando la Cisgiordania, ci si imbatte in tante storie di bici sequestrate o giocattoli distrutti dall’esercito israeliano a bambini palestinesi.
Nei territori occupati le angherie, le intimidazioni, la violenza fisica e psicologica esercitata dai militari è vissuto quotidiano sin dall’età più tenera.
Lunghissima, e cruciale, è anche la storia di resistenza nonviolenta del popolo palestinese in risposta all’oppressione subita, sin da prima della Nakba nel 1948. I bambini, protagonisti di questo racconto, sono figli di questa tradizione di resilienza, un valore immenso che rende ancora più straordinari l’integrità, la dignità e il coraggio del popolo palestinese.