Quando si ricordano delle tragedie o, meglio, delle stragi, come sarebbe opportuno chiamare quella che ci sconvolse tutti guardando le immagini di un ponte sul quale la maggioranza degli italiani era passato almeno una volta scomparire in una nube di polvere, si dovrebbe avere la decenza e il dovere di trarre delle conclusioni.
Io vorrei che qualcuno contasse i morti diretti e indiretti dell’ondata di privatizzazioni dei beni pubblici dagli anni ‘70 del secolo scorso in poi. E vorrei che aggiungesse anche i morti indiretti, le persone rovinate, impoverite e poi si facesse una valutazione.
Perché è da quell’epoca che ci viene ripetuto il mantra che le privatizzazioni sono utili, che i servizi migliorano, che la competenza privata è di gran lunga superiore a quella pubblica, con un livello di propaganda e malafede veramente impressionante.
E anche quando il popolo (dicono sovrano) decide che l’acqua deve essere pubblica come con il famoso referendum c’è sempre qualcuno che fischietta e che regala a enti privati l’acqua pubblica, con risultati che non si contano in morti, meno male, ma in aumenti spropositati di bollette, senza manutenzione, senza servizi ai cittadini.
Come nel tema dell’ambiente siamo con il solito “businness as usual”: le soluzioni sono quelle che generano utili, non utile sociale né soluzione sostanziale del problema.
Vogliamo aggiungere le Ferrovie? Le Poste? Parlare dei grandi complessi industriali che erano stati la colonna portante della ricostruzione dell’Italia? Abbiamo venduto tutto il bene comune ai privati e lo abbiamo condito con la salsa ideologica, pragmatista e rapace del “privato è bello”. E i privati non hanno manutenuto, hanno inquinato, hanno alzato i prezzi, hanno monopolizzato…
E di fronte alla strage del Polcevera già vediamo la macchina dell’insabbiamento al lavoro, nonostante le buone intenzioni di alcuni magistrati; perché la privatizzazione della giustizia, privatizzazione invisibile, consiste nel fatto che se hai i migliori avvocati vinci sempre. Già ci hanno raccontato, con dovizia di cavilli, che chi aveva risparmiato sulla manutenzione non poteva essere né messo in galera, né gli si poteva chiedere risarcimento perché c’era la clausola x che lo salva sempre…
Allora diciamo con chiarezza quello che è evidente: solo l’interesse pubblico può garantire il bene comune. E nemmeno questo sarà sufficiente perché il bene comune va amministrato da gente che crede nel bene comune e che si mette al servizio della comunità e che la comunità ha i mezzi e il potere di controllare casomai si confondessero nella via, mezzi trasparenti, precisi e decisivi. E nei casi, come quelli sempre più preoccupanti di educazione e sanità, va chiarito che la concorrenza con gli enti privati deve esserci in condizione di parità.
Perché anche nei settori ancora prevalentemente pubblici risulta chiaro il giochetto a massacrare e non far funzionare le strutture pubbliche in modo da indurre le persone a usare quelle private. Questo nel sistema sanitario ed educativo lo possiamo misurare con mano e lo abbiamo più volte documentato sulle nostre pagine.
Questo ragionamento non lo vediamo presente nel momento attuale, se non in frange politiche e sociali che non occupano il centro della politica e della società e questo deve preoccuparci e indignarci ma anche farci riflettere sulle azioni che possano invertire questa tendenza e ridare peso al bene comune e alla sua gestione collettiva. Non sarà per caso ogni volta che anche nel piccolo mettiamo in moto cose basate sulla solidarietà, sul dare disinteressato, sullo scambio vediamo sorgere relazioni e risultati che appartengono a quel mondo futuro a cui aspiriamo e verso cui camminiamo.