Non tutti sanno che oltre alle pene, il nostro sistema penale prevede anche le misure di sicurezza destinate alle persone ritenute socialmente pericolose. Stiamo parlando di un retaggio delle costruzioni positivistiche e lombrosiane che la dottrina penalistica italiana del secondo dopoguerra ha spesso ritenuto in contrasto con i principi costituzionali, in particolare, con la funzione rieducativa della pena.
Tali misure si aggiungono infatti alla pena detentiva già espiata e ne rappresentano una mera continuazione, di durata non predeterminata ed eseguita in luoghi del tutto analoghi al carcere. Nonostante le tante critiche avanzate in questi anni, le misure di sicurezza dell’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa lavoro, introdotte dal codice Rocco, resistono.
Un volume che trae origine dalla ricerca-azione sulle case di lavoro de La società della Ragione, finanziata dalla Chiesa Evangelica Valdese, con i contributi del bando 8×1000 – anno 2021, condotta da Giulia Melani e Grazia Zuffa, con la collaborazione di Franco Corleone, Katia Poneti, Lisa Roncone, Leonardo Fiorentini. E Katia Poneti dell’Ufficio del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana, cerca di fare sulle case di lavoro proponendo il loro superamento.
Le case lavoro, colonie agricole, o sezioni destinate a casa lavoro in istituti di pena sono otto sull’intero territorio nazionale e si trovano a: Vasto, Castelfranco Emilia, Aversa, Tolmezzo, Biella, Isili, Barcellona Pozzo di Gotto e la “Giudecca” di Venezia. Tra questi istituti soltanto la “Giudecca” è femminile con 5 presenze e va segnalato che a Tolmezzo le presenze riguardano detenuti al 41bis. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, relativi all’anno 2020, le persone internate in queste strutture erano 321. Dalle poche ricerche su queste strutture e dai pochi dati disponibili si evince che la popolazione che è sottoposta a questa misura è la più marginale, con bassa scolarizzazione e senza riferimenti sul territorio. Le stesse esigue ricerche evidenziano anche come le case lavoro siano strutture con caratteristiche analoghe ai penitenziari.
“Le case di lavoro –si legge nel Rapporto– sono realtà ignorate e sconosciute, o per dirla con le parole di Valerio Onida, in una delle poche pubblicazioni recenti sul tema (De Vanna, 2020), sono “trascurate”, una “provincia” un po’ dimenticata del nostro diritto penale” (p. 33). Tanto che, anche la recente riforma che ha previsto il superamento degli OPG, un’altra misura di sicurezza, non le ha toccate se non tangenzialmente”. Una “provincia dimenticata” ove però, alcune persone, ritenute arbitrariamente socialmente pericolose, rimangono recluse in una struttura penitenziaria per un tempo indeterminato, dopo aver già espiato la propria pena. Una misura illiberale, introdotta dal codice Rocco, assolutamente incompatibile con una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana, che incredibilmente tarda ad essere superata.
La Ricerca-Azione portata avanti si poneva l’obiettivo di avviare un processo di trasformazione delle misure di sicurezza detentive per imputabili, volto ad eliminarne gli aspetti più afflittivi e renderle vocate al reinserimento sociale e non all’esclusione. I risultati e la riflessione conseguente hanno portato a una proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati da Riccardo Magi “Modifiche al codice penale, in materia di abolizione delle misure di sicurezza detentive per soggetti imputabili e di disciplina della libertà vigilata“.
Qui la proposta di legge e la ricerca