“Escludere una prova come quella non è privo di costi per la società; ma ammetterla, sapendo che è stata ottenuta con la tortura, potrebbe avere un costo per la società ancora più alto”.
Sono le parole con le quali, il 18 agosto, il colonnello Lanny J. Acosta Jr., giudice militare presso il centro di detenzione di Guantánamo Bay, ha escluso dal processo contro il cittadino saudita Abd al-Rahim Nashiri la presunta “prova regina”: l’auto-incriminazione fatta nel 2007 per il bombardamento, nell’ottobre 2000, della nave della marina militare “U.S.S. Cole”.
Con ogni probabilità, se quella prova fosse stata considerata valida, il processo si sarebbe concluso con una condanna a morte.
Per quattro anni Nashiri è stato sottoposto a quelli che la Cia chiamava eufemisticamente “programmi di interrogatori rinforzati”. Nient’altro che torture, tra le quali il “waterboarding” (la simulazione di annegamento), la privazione del sonno, pestaggi e condizioni inumane di detenzione.
La decisione del giudice Acosta potrebbe avere conseguenze anche per quanto riguarda i cinque detenuti accusati degli attacchi dell’11 settembre 2001, proprio mentre sono in corso negoziati per un patteggiamento: ammissione di colpevolezza da un lato, rinuncia alla condanna a morte dall’altro.