Questa lunga estate calda che sembra averci messo tutti alla prova, si è colorata di vera tragedia nella sezione femminile del carcere delle Vallette in cui è rinchiusa anche Cecca, l’attivista Notav.
Una dopo l’altra, tre donne si sono tolte la vita: Graziana nel mese di giugno, Susan e Azzurra il 9 e il 10 agosto. Senza dimenticare Angelo, la quarta vittima nel mese di luglio.
I suicidi delle donne fanno maggiormente scalpore perché fino ad adesso sembrava che l’autolesionismo le coinvolgesse di meno: l’anno scorso sul numero totale di 84 eventi suicidari in tutta Italia 3 sono state le vittime donne. Che tre siano le vittime nel giro di due mesi nella stessa sezione non può non raccontarci di una situazione estremamente drammatica e di meccanismi che non funzionano.
Che il carcere delle Vallette sia conosciuto come il carcere delle vergogna e presenti numerose criticità, come testimonia l’osservatorio dell’associazione Antigone1 oltre che ad un processo per torture a carico di un ex direttore e numerosi agenti penitenziari, non è una novità.
E’ una novità che la sezione femminile, che finora si era contraddistinta per l’attivismo delle donne, conosciute in tutta Italia col nome “le ragazze di Torino2” che da anni chiedono soluzioni dignitose alle pessime condizioni carcerarie attraverso scioperi della fame o del carrello, appelli e raccolte firme, ora sia così attraversata dalla mancanza di speranza.
Ma forse non ci dovremmo sorprendere perché proprio l’esperienza delle voci inascoltate, degli appelli caduti nel vuoto, delle pratiche nonviolente snobbate dai politici di turno, potrebbe aver contribuito a quella mancanza di speranza che ha chiuso l’orizzonte per sempre a Graziana, Susan e Azzurra.
Ognuna di loro proveniva da una storia e una situazione diversa ma quello che accomuna le loro morti è la mancanza di speranza: speranza nel potersi ricostruire una vita, speranza di rivedere il proprio figlio, speranza di poter riattivare il percorso di cura interrotto da una carcerazione punitiva e tardiva. Quella speranza che è stata uccisa in primis dalle istituzioni, da un sistema carcerario che non è in grado di “occuparsi delle persone” e delle loro fragilità, che le tratta come numeri e soprattutto come delinquenti a cui negare dignità e bisogni umani.
Una speranza che manca totalmente all’intero sistema carcerario: manca alle guardie capaci solo di rinchiudere in isolamento chi è in difficoltà, ai medici (pochi, quando ci sono e se ci sono) che somministrano una quantità esagerata di psicofarmaci, ai Tribunali di Sorveglianza che somministrano permessi e libere uscite con estrema difficoltà, guardando più all’aspetto punitivo che alle necessità riabilitative. Un sistema siffatto non può che produrre malessere e morte.
Cecca dal carcere non scrive molto, non è il suo stile, ma comunica tantissimo: fa pervenire richieste di materiali utili alla sezione (di recente abbiamo inviato 8 ventilatori necessari alla sezione e aiuti economici a donne che ci indica per la loro indigenza), segnala le situazioni critiche che sono da comunicare alla Garante delle persone private della libertà in modo che si possa attivare.
Ci chiede, soprattutto, di raccontare: raccontare che ormai nella sezione un terzo delle donne soffre di disturbi psichiatrici, che vengono imbottite di psicofarmaci, che non vi sono invece interventi professionali. Le donne sofferenti vengono osservate dalle guardie carcerarie invece che da personale specializzato.
Solo in questa settimana Cecca ha utilizzato la sua telefonata per chiedere aiuto per una co – detenuta: il sabato sera le è stata comunicata la morte del figlio di 23 anni a causa di un tragico incidente, la donna ha ovviamente reagito con un urlo di dolore ed è quindi stata messa in isolamento, in attesa che il magistrato di sorveglianza le firmasse il permesso di uscita per “motivi di lutto”. Ma il magistrato di sorveglianza lunedì non firma, manca un documento, il certificato di morte, nonostante che foto e nome del ragazzo siano su tutti i giornali locali.
La chiamata di Cecca mette in moto quel tam tam di solidarietà che esiste qui fuori, la situazione viene immediatamente segnalata alla Garante che si attiva e preme sulle istituzioni. Nonostante questo il permesso arriverà solo il mercoledì sera e la donna potrà uscire dall’isolamento e riabbracciare la sua famiglia giovedì.
Se non è “istigazione al suicidio” questo.
Peggio ancora ha fatto solo il ministro Nordio che si è precipitato alle Vallette il giorno dopo il duplice suicidio. Ha parlato con i vertici del carcere, con i garanti, è andato a visitare le celle vuote delle due donne. Quando le altre donne, quelle vive e palesemente traumatizzate, gli hanno chiesto di potergli parlare si è negato. E’ scattata qui la protesta, spontanea ed immediata, le donne hanno iniziato a battere sulle sbarre e ad urlare, seguite a ruota nelle sezioni degli uomini.
Per oltre un’ora, noi che ci trovavamo fuori dai cancelli e i giornalisti presenti, abbiamo udito le grida e le battiture, i fischi. Una volontaria che le ha incontrate il giorno dopo ci dirà: “poverette erano tutte senza voce per il grande gridare”
Se non è “istigazione al suicidio” anche questo.
La procura, che ha aperto due fascicoli per le morti di Susan e di Azzurra dovrebbe prendere in considerazione chi sono i reali colpevoli.
Il ministro è ripartito senza una soluzione sensata, soprattutto senza dare l’idea che a qualcuno del governo interessino le condizioni della sezione femminile del carcere di Torino e di nessun altro carcere in Italia. Lasciamo pure che si ammazzino.
Lasciamo pure che monti la violenza di giorno in giorno.
Non osiamo pensare dove vogliano arrivare e con quali scopi.
Quello che resta a noi, società civile, attivismo e associazionismo è continuare a presidiare quelle mura, non far sentire nessuno da solo, rassicurare che la loro voce viene ascoltata. Ascoltata e diffusa nella società, per contribuire a decostruire la mentalità ossessivamente punitiva che accetta di barattare la propria “sicurezza” con così tanta tragedia umana.
Cecca è in attesa di sapere, verso metà settembre, se potrà usufruire della detenzione domiciliare per i restanti 5 mesi che le restano da scontare. Non vi sono certezze in merito agli esiti, nonostante la legge qui vige il pensiero ossessivo punitivo.
Nicoletta Salvi Ouazzene – Mamme in Piazza per la Libertà di dissenso