Articolo scritto in collaborazione con Teresa Patrignani.
I due film italiani in concorso, Rossosperanza e Patagonia, parlano ambedue di giovani, seppure ambientati in periodi e situazioni fra loro estremamente differenti.
In Rossosperanza, della regista Annarita Zambrano, l’immagine di un disco delimita tempi e situazioni riportandoci agli anni ’90, in una società ricca, apparentemente spensierata, dove il mondo adulto, lasciatosi alle spalle anni di tensioni, è alla ricerca del piacere nelle sue molteplici forme tipiche di quei ceti che, dopo aver vinto il conflitto sociale, non hanno più limiti da porre ai propri orizzonti. Ai loro figli, questa sembra essere la tesi del film, l’unico spazio che rimane per esercitare una qualche forma di ricerca ma anche di conflitto, passaggio necessario per entrare nell’età adulta, è quello segnato da desideri e da atti di ribellione individuali.
Quattro rampolli di famiglie molto ricche e collocate ai livelli alti della società sono ospiti di una comunità di altissimo lignaggio, collocata in una villa nel centro di Roma, che dovrebbe rieducarli; c’è chi si è macchiato di veri e propri reati e chi invece ha uno stile di vita incompatibile con la morale allora dominante.
Apparentemente per le famiglie d’origine non c’è differenza tra coloro che dovrebbero andare in galera e coloro ai quali dovrebbe essere riconosciuta la libertà di scelta nei propri comportamenti individuali; l’obiettivo è una rieducazione che restituisca i figli alla normalità celebrata nella propria cerchia sociale; non c’è reato e condanna da espiare, così come non c’è autodeterminazione da rispettare.
I giovani stretti tra una rigida e bigotta morale sopravvissuta alla recente scomparsa del potere politico della Democrazia Cristiana e il recente edonismo berlusconiano, sembrano privi di qualunque riferimento, abbandonati a sé stessi e principalmente concentrati sulla ricerca della propria identità sessuale. Rappresentazione di un’Italia pronta a consegnarsi al potere e alle promesse berlusconiane. Film interessante, in grado di stimolare riflessioni sul nostro recente passato e quindi sul nostro presente, ma con alcune ingenuità nel racconto e con qualche limite nella recitazione.
Più introspettivo e principalmente concentrato sulle relazioni interpersonali è Patagonia di Simone Bozzelli. Yuri un giovane ventenne, orfano dei genitori, vive con le zie in un paesino dell’Abbruzzo, non ha alcun progetto per il proprio futuro, è alla ricerca della propria identità sessuale, si sente soffocare in un ambiente claustrofobico, aspetta qualcosa, un’occasione per evadere alla ricerca di una libertà che non riesce a immaginare. L’arrivo in paese di Agostino, un pagliaccio che gira con il camper i paesi della zona organizzando spettacoli e feste per i bambini, è l’occasione attesa. Yuri abbandona la sua prigione e segue Agostino in un viaggio verso l’indipendenza, la meta simbolica della propria libertà è la Patagonia, terra sconosciuta, misteriosa, che raccoglie tutte le promesse di quello che non c’è nel presente dei due giovani uomini.
Il camper è la possibilità di movimento e di scoperta, permette di entrare ed uscire, condividere e fuggire, incontrare e lasciare. Quando il camper si ferma in un rave party le immagini di libertà, nelle quali tutto è fluido, sfuggente, precario e privo di radici, entrano in forte contrasto con la prigione interiore nella quale è precipitato Yuri.
Il rapporto tra Yuri e Agostino si sviluppa in una relazione che ora appare una porta verso la libertà, ora una prigione altrettanto soffocante come il paesino lasciato alle spalle, con l’aggravante di un’illusione svanita, di una promessa rimasta irrealizzata. Ma è un rapporto mai definito una volta per tutte, che continuamente si apre e si chiude, spostando più in alto l’asticella della sofferenza e della sfida emotiva. Un rapporto che indipendentemente dalla sua specificità, etero, omo, trans, fluido… mostra dinamiche comuni a tutte le relazioni umane tra dominato e dominatore, premi e punizioni, autonomia e dipendenza, obbedienza e comando. E se alcune scene possono risultare disturbanti è perché rimandano ad esperienze che ognuno può aver attraversato nella propria esistenza.
Non c’è un giudizio definitivo, nessuno è marchiato, ogni volta che Agostino sembra essere definitivamente collocato nel campo del cattivo, la posta viene rilanciata ed è modificato l’angolo d’osservazione, così che, alla protervia e all’arroganza, si affianca la fragilità e la sofferenza che, seppure con difficoltà, manifestano la loro presenza. Le relazioni tra i due protagonisti non costituiscono un orizzonte emotivo chiuso, ma si intrecciano con altri personaggi incontrati nei rave, riproducendo complessità emotiva, incontri e fughe. Un bel film, girato con competenza e delicatezza.
Concentrato completamente sul rapporto interpersonale è Touched della regista e fotografa tedesca Claudia Rorarius, presentato nella sezione Cineasti del presente. Un film duro, esplicito, disturbante, profondamente vero e assolutamente necessario. Alex è un giovane uomo diventato tetraplegico in seguito ad un incidente, Mary è un’assistente sanitaria in forte sovrappeso, obesa. Alex è ricoverato, sottoposto a un programma di riabilitazione e deve prendere consapevolezza della propria nuova situazione: non può più muovere i quattro arti, non può provare piacere sessuale, totale è la sua dipendenza da altre persone e da ausili meccanici.
Mary ha trovato nel tempo un proprio equilibrio nell’accettazione e nella convivenza con il proprio corpo, in una vita che appare solitaria e segnata da una dimensione nascosta, ma presente, di frustrazione. Tra i due si sviluppa una relazione che cresce esponenzialmente nei comportamenti che ben presto travalicano quello che può essere tollerato in un rapporto professionale all’interno di una struttura sanitaria. La macchina da presa indaga senza reticenze la conoscenza reciproca dei corpi, gli atti sessuali e le scene erotiche, mentre la relazione interpersonale subisce accelerazioni, ritirate, sospensioni e riprese, in un complesso intreccio di vissuti contrastanti, di reciproca attrazione e di fuga.
Alex è perennemente arrabbiato, il corpo di Mary ora gli appare come un’ancora di salvezza che gli permette di sperimentare, seppure in forme diverse dal passato, il suo essere uomo maschio, persona sessuata, ora lo vive come un ripiego verso il quale non si sarebbe mai rivolto prima dell’incidente. Un ripiego incompatibile con la vita alla quale, anche da un letto d’ospedale, continua ad aspirare. Diventa cattivo, duro nelle parole e nei giudizi, sprezzante e umiliante nei comportamenti, chiede, esige e poi butta via.
Mary ha trovato l’“oggetto” sul quale riversare il suo amore, un uomo che, pensa, non potrà rifiutarla perché ha bisogno comunque di lei, perché non potrà avere molte altre alternative, un uomo che lei potrà inondare con il suo amore, appagare e imprigionare. L’amore non cancella un gioco di potere che Mary pensa di poter vivere a senso unico, mentre ben presto si rivela un’arma che ognuno dei due può impugnare, usare e con la quale procurare molto dolore all’altro. Alex non è autonomo nei movimenti, ma continua a esserlo nei desideri. Dietro la storia di Alex e Mary vi sono anche situazioni particolari.
Claudia Rorarius, la regista, ha spiegato come in parte il film sia autobiografico; all’età di quattordici anni ha dovuto fare i conti con la disabilità del padre, che non è mai riuscito ad accettare la sua nuova condizione portandosi dietro, per tutta la vita, collera e frustrazione che hanno profondamente segnato l’esistenza della ragazzina.
Stavros Zafeiris, l’attore che interpreta Alex, nella vita reale è paraplegico, non è in grado di muovere gli arti inferiori e ha dovuto faticare non poco per accettare la sua nuova situazione; dopo un lungo percorso è diventato un danzatore e il film si chiude con uno spettacolo di danza, probabilmente una nota autobiografica del protagonista. In Touched Stavros Zafeiris ha dovuto fare un ulteriore sforzo per immedesimarsi in Alex, che essendo tetraplegico è impossibilitato ad utilizzare tutti e quattro gli arti.
Un film drammatico, ma anche tenero e realista.
Il festival di Locarno aveva già ospitato negli anni passati (e ne avevo scritto proprio su Pressenza) film che affrontavano la sessualità delle persone disabili, ma qui siamo di fronte ad una situazione completamente diversa: in scena non c’è il sesso a pagamento, al centro non c’è la discussione sulla liceità o meno di prestazioni sessuali per “compassione”, ma una storia fatta di sentimenti, attrazione, repulsione, aspettative, delusioni, razionalità ed amore.
Nuit obscure – À revoir ici, n’importe où è il film in concorso del francese Sylvain George, prosecuzione di Nuit obscure – Feuillets sauvages (Les brulants, les obstinès) presentato dal medesimo regista l’anno scorso fuori concorso a Locarno. Nel primo film l’attenzione era rivolta a illustrare la complessa situazione geopolitica di Melilla, enclave spagnola in Marocco, nel continente africano, affacciata sulla sponda meridionale del Mediterraneo, città fortemente militarizzata e meta di tanti che dall’Africa sub-sahariana o dal Marocco cercano di raggiungere l’Europa. Ora invece il focus è su un gruppo di ragazzini, alcuni ancora bambini, tutti maschi, che vivono da soli a Melilla. Quando la città dorme, le strade sono vuote, loro le abitano alla ricerca di qualcosa da mangiare da raccogliere tra i rifiuti, di un posto per dormire, sulle rocce, sugli alberi, su una panchina, in un’aiuola, al riparo di una coperta, sempre che nessuno l’abbia precedentemente prelevata dal nascondiglio nei tombini della città.
I ragazzi osservano le navi che entrano ed escono dal porto inseguendo il sogno di riuscire un giorno a raggiungere il continente europeo e nell’attesa scavalcano le inferriate, entrano nel porto, sfuggono ai controlli dei poliziotti in un rincorrersi che si ripete come un gioco, simile a guardia e ladri. Si buttano in mare, si accostano alle barche dalle quali, per un incidente, uno di loro è stato schiacciato contro il molo lasciandoci la vita. Giocano, si tuffano, scherzano, sono gruppo, sono fra loro solidali, litigano con le dinamiche tipiche di un branco. Il tempo si ripete uguale a sé stesso nella monotonia di chi è in attesa che un sogno diventi realtà.
La scelta di utilizzare il bianco nero rafforza ulteriormente il realismo delle scene e la loro intrinseca forza. Non ci sono figure adulte di riferimento, è un universo generazionale e monosessuato quello che appare e che è stato studiato per anni dal regista e dalla sua equipe. Un film necessario per testimoniare l’ennesima pagina oscena delle scelte europee verso i migranti, in un contesto che documenta come l’epoca coloniale non si possa ancora considerare conclusa.
Un’unica osservazione critica: docufilm di questo tipo possono ricoprire un ruolo importante nel documentare situazioni poco conosciute e sollecitare consapevolezza, ma per ottenere qualche risultato è necessario rivolgersi ad un pubblico che vada oltre gli addetti ai lavori, oltre i già consapevoli. La durata del film, tre ore, non aiuta a raggiungere l’obiettivo; oltretutto la mia impressione è che sarebbe stato possibile ridurla, se non addirittura dimezzarla, senza che per questo il film perdesse la sua forza e la sua bellezza artistica.