È il 15 ottobre 1958 quando al Vinca Nuclear Institute vicino a Belgrado, nella Jugoslavia del maresciallo Tito, si verifica un incidente durante un progetto di ricerca per la costruzione di una bomba nucleare. Sei scienziati, tra i quali il capoprogetto, restano contaminati e in piena guerra fredda verranno trasferiti a Parigi all’istituto Marie Curie. Da qui prende avvio Cuvari formule (Guardians of the Formula) del regista serbo Dragan Bielogrlic, vincitore del premio “Pardo Verde Ricola” (un premio a sfondo ambientalista, più d’immagine che di sostanza); il film intreccia una storia vera con elementi e personaggi di fantasia in una sintesi avvincente tra un dramma, che talvolta assume le sembianze di un thriller e la narrazione storica. Le dinamiche politico- diplomatiche sono ben illustrate e si sovrappongono all’importanza delle relazioni umane e dell’empatia tra le persone, elemento quest’ultimo in parte esaltato a fini narrativi, ma che forse a quell’epoca svolgeva un ruolo più significativo di quanto avviene nella società odierna.
Cuvari formule è stato prodotto dalla collaborazione tra diversi Paesi dell’ex Jugoslavia: Serbia, Slovenia, Montenegro e Macedonia del nord, evento raro che, almeno in questa occasione, pone la collaborazione in ambito culturale al di sopra delle tensioni geopolitiche, in sintonia, tra l’altro, con quanto avviene nel film. L’opera di Dragan Bielogrlic non era inserita nel concorso internazionale, ma è stato il primo film prodotto nell’ex Jugoslavia ad essere proiettato in Piazza Grande.
Nel commentare la pellicola il regista sottolinea come nei decenni passati sia stato interesse dei servizi segreti di ambedue le parti – jugoslavo/serba e francese – non dare risalto a questa vicenda a causa del contesto internazionale; profetizza però che l’uscita del film susciterà un enorme dibattito nei prossimi mesi e non solo in Serbia. Secondo quanto raccontato nella pellicola, nel 1958 la Jugoslavia cercava di costruirsi da sé una bomba atomica fuori da ambedue gli schieramenti della Nato e del Patto di Varsavia, tentativo abbandonato dopo l’incidente del 1958, per decisone di Tito.
La relativa segretezza dell’evento fu probabilmente anche la ragione per la quale il dottor Mathé non ricevette il Premio Nobel nonostante il primo trapianto di midollo osseo realizzato proprio in questa occasione. Nell’attuale contesto storico il film assume un significato di forte contrasto non solo all’uso delle armi atomiche, ma anche alle guerre e non a caso è stato molto apprezzato da chi è impegnato a contrastare l’attuale escalation bellica.
“La solidarietà non è carità” è una battuta contenuta nel film “The Old Oak (La vecchia quercia)” che da sola potrebbe ben sintetizzare l’ultimo lavoro di Ken Loach, con la sceneggiatura di Paul Laverty, che a Locarno ha ottenuto il premio del pubblico di Piazza Grande. “Riace in UK” così noi italiani potremmo riassumere il contenuto del film. Un gruppo di rifugiati siriani, in fuga dalla guerra, arriva in un paese nel nord dell’Inghilterra che sta attraversando una grave crisi economica. La popolazione è in uno stato di grande povertà come conseguenza della chiusura delle miniere decisa nel 1984 dall’allora prima ministra Margaret Thatcher, che provocò circa 20.000 licenziamenti e un durissimo scontro con i sindacati, lotte che suscitarono un’eco in tutta Europa con grandi movimenti di solidarietà che coinvolsero anche ampi settori intellettuali e culturali.
La prima reazione della popolazione è di ostilità verso i nuovi arrivati con episodi che riproducono, per l’ennesima volta, lo scontro tra poveri che è uno degli elementi costanti dei movimenti anti-immigrazione sviluppatesi nel continente europeo: coloro che occupano i piani bassi della distribuzione della ricchezza se le danno fra loro, mentre i padroni, responsabili a livello locale/nazionale e globale di tali situazioni di indigenza, se la ridono in un angolo. Dal primo immediato rifiuto dei rifugiati siriani il film racconta l’evoluzione della dialettica interna al paese, i conflitti che la nuova situazione produce nella comunità locale, il confronto tra culture differenti, ambedue indagate ognuna nella profondità e complessità dei rapporti umani che contiene, produce e protegge.
In questo contesto la solidarietà nelle sue differenti manifestazioni, tra donne, tra ex minatori, tra autoctoni e rifugiati, può manifestarsi solo attraverso la produzione di un conflitto che ben presto supera la sfera individuale per dispiegarsi in tutta la sua dimensione sociale. Una solidarietà che non può prescindere, nemmeno in questi tempi di guerra, di pandemia e di disastri ambientali, dalla speranza: “Se io smetto di sperare, il mio cuore smetterà di battere” dice Yara, una giovane siriana protagonista del film. Queste parole racchiudono forse il messaggio più forte che Ken Loach e Paul Laverty lanciano verso i giovani dal palco di Piazza Grande, mentre il regista saluta il pubblico con il pugno chiuso. Ed è ancora Yara che, dopo aver fotografato le immagini del loro contrastato arrivo nel paesino inglese, spiega che “quando guardo in camera scelgo di vedere speranza e forza”, concetto che viene ulteriormente approfondito nelle interviste da Loach e Laverty: “Ci sono molte persone che vogliono raccontare grandi storie, ma non ne hanno la possibilità……Ma come filmmaker e narratori dovremmo sederci insieme con un pezzo di carta e chiederci: qual è la miglior storia da raccontare?”
Durissima è la critica rivolta a una carità che serve solo alle grandi corporazioni e agli Stati per mantenere leggi ingiuste, causa di profonde ingiustizie e di ulteriori differenziazioni sociali. Ken Loach nel presentare Old Oak spiega: “Un vecchio proverbio inglese dice “’I poveri sono sempre con noi’. Certo, sono sempre con noi perché qualcuno continua a derubarli” Sintesi perfetta di tutta la sua opera cinematografica.
Non è semplice trasformare una lotta, che nasce come iniziativa individuale, in una vertenza collettiva e quando non ci si riesce il destino sembra segnato. Robin, un’operaia addetta al controllo delle pesche in un’azienda di frutta nella British Columbia, è la protagonista di Until Branches Bend (Finchè i rami non si piegano) della regista e sceneggiatrice canadese Sophie Jarvis, presentato nella sezione Panorama Suisse.
Un giorno, durante l’orario di mensa, trova un insetto simile a uno scarafaggio dentro una pesca, è preoccupata e si rivolge ai suoi superiori senza riuscire a destare in loro il minimo interesse. Decide di consegnare una fotografia dell’insetto a un laboratorio. Il giorno seguente l’azienda viene temporaneamente chiusa e sottoposta ad un’ispezione sanitaria. In un territorio dove tutta l’economia gira attorno alla coltivazione delle pesche, l’impatto è enorme e non solo Robin viene individuata come la responsabile, ma è messa in discussione la sua stessa correttezza e viene addirittura sospettata di aver inviato al laboratorio un fotomontaggio. Il tentativo di Robin di documentare oltre ogni dubbio quanto da lei scoperto, si intreccia con il suo desiderio di interrompere una gravidanza non desiderata, obiettivo, anche questo, tutt’altro che facile, destinato a scontrarsi con la rigida legislazione locale.
Alcuni commentatori hanno sottolineato il parallelismo tra l’animaletto contenuto nella pesca, frutto che fin dall’antichità ha simboleggiato l’erotismo, la fertilità e il corpo femminile e il feto nel corpo materno. Pur riconoscendo la simbologia della pesca, il parallelismo con il ventre gravido mi pare forzato, ma questo è solo il parere personale di un maschio.
Il condizionamento che gli interessi di un’azienda esercitano su un’intera collettività, l’istinto primordiale di difendersi individuando un capro espiatorio, l’arrivare a negare l’evidenza, ignorando e sfidando le possibili conseguenze prossime future per non dover affrontare le incognite del presente, sono i temi sollevati da un film che regge bene il ritmo del racconto; quasi un thriller ecologista, anche grazie ad un’ottima colonna sonora.
Sposa decisamente la causa ecologista Camping du Lac della francese Eleonore Saintagnan, presentato nella sezione Cineasti del presente. Tra documentario e favola racconta di una giovane donna, interpretata dalla regista stessa, che, per cause fortuite è obbligata a trascorrere un periodo in riva ad un lago nel quale, si narra, vi sia uno strano enorme pesce; a differenza del mostro di Loch Ness, non sembrerebbe assumere sembianze spaventose, almeno secondo i pochi che asseriscono di averlo visto. La vita attorno al lago si svolge come in un paese incantato, tra un cantante country, una donna che ogni sera si bagna nuda nelle acque lacustri e bambini che giocano in una comunità serena. Il santo patrono locale è Saint Cosentin, un San Francesco bretone che viveva in totale armonia con la natura e parlava con i pesci. Le autorità locali prima cercano di catturare il misterioso pesce, poi si arrendono e sfruttano la notorietà acquisita dal posto, ma a questo punto l’equilibrio si rompe e i comportamenti umani e la natura entrano in conflitto fra loro. Un film delicato, con evidente intento pedagogico, adatto anche ai più piccoli.