Vittorio Agnoletto ha seguito per noi il Festival del Cinema di Locarno e come avviene ormai da diversi anni, ci racconta le sue impressioni e le riflessioni che ne scaturiscono. Gli articoli che da oggi seguiranno con cadenza giornaliera non sono dei testi di critica cinematografica, ma appunti, stimoli e pensieri che Vittorio condivide con i nostri lettori. Nelle prossime settimane alcuni di questi film usciranno in diverse città italiane che ospitano rassegne e festival. Buona lettura.
La 76° edizione del festival di Locarno si è conclusa così come molti giornalisti (compreso il sottoscritto) presenti sulle rive del Lago Maggiore avevano previsto; i film che hanno raccolto i tre maggiori riconoscimenti sono, nell’ordine, l’iraniano Mantagheye bohrani (Critical Zone) di Ali Ahmadzadeh, che ha vinto il Pardo d’Oro, il rumeno Nu astepta prea mult de la sfarsitul lumii (Do not expect too much from the end of the world) di Radu Jude, vincitore del Premio Speciale della Giuria dei Comuni di Ascona e Losone e l’ucraino Stepne, che ha visto premiata Maryna Vroda per la miglior regia.
La nostra previsione si basava su semplici valutazioni politiche: un premio per esaltare il cinema iraniano critico verso il regime, un altro per ribadire la supremazia del sistema e dei valori occidentali sul passato sovietico e infine, immancabile in questi anni, un riconoscimento/tributo all’Ucraina. È probabile che queste valutazioni politiche non siano state del tutto estranee alle decisioni della giuria, ma ciò nonostante, i tre film, pur nelle loro differenze, hanno un loro valore artistico e almeno in un paio di casi, mostrano una certa autonomia dal pensiero dominante.
Mantagheye bohrani (Critical Zone) è stato presentato dai responsabili del festival come “un inno alla resistenza iraniana e alla libertà”. Una modalità semplicistica da parte del circuito mainstream di appropriarsi di un film che meriterebbe di essere commentato e valutato per quello che è dal punto di vista cinematografico.
È necessario innanzitutto separare i diversi piani. Uno è quello politico, relativo alla libertà d’espressione e in generale agli spazi di democrazia.
Il film è stato girato clandestinamente, utilizzando vari escamotage per sfuggire al controllo del regime, ad esempio: sono stati realizzati dieci brevi video, uno separato dall’altro, rielaborati e uniti fra loro in post-produzione. Per girare le scene in aeroporto l’operatore si è finto un parente che filmava l’arrivo di un suo caro da un viaggio internazionale, modalità tollerata dalle autorità e altre scene sono state girate dall’interno di un’auto. Molti degli attori non compaiono coi loro nomi nei titoli di coda, per non esporli a possibili rischi.
Rischi che invece probabilmente dovrà affrontare Ali Ahmadzadeh, il regista del film, che avrebbe dovuto essere presente a Locarno, ma il cui viaggio è stato bloccato per ben due volte: qualche mese fa, quando aveva ottenuto la possibilità di espatriare, si è visto rifiutare dalla Germania, per ragioni a noi ignote, la possibilità d’ingresso nell’area Schengen; successivamente, quando questo divieto è stato rimosso, ci hanno pensato le autorità iraniane a ritirargli il visto per l’espatrio. Interrogato più volte dai servizi iraniani, sta attendendo di sapere quale destino gli riserverà il futuro prossimo. Da questo punto di vista non c’è dubbio che – come ricordato durante il festival da Sina Ataeian Dena, produttore del film, anch’egli iraniano ma residente a Berlino – la vittoria di un prestigioso premio internazionale, con il riverbero mediatico che lo accompagna, potrebbe funzionare come elemento di dissuasione verso le autorità iraniane per evitare il peggio ad Ali Ahmadzadeh.
Un piano totalmente differente è quello relativo all’opera cinematografica. Il film è stato girato prima delle rivolte di massa degli ultimi anni, motivo per il quale non c’è traccia di tali eventi nella narrazione. La vicenda si snoda in una notte a Teheran dove il protagonista, un giovane uomo con folti capelli e barba, spaccia ogni sorta di droga a tutti coloro che lo aspettano per strada: giovani sbandati, prostitute, transgender ecc. Una fetta di città che per il potere non esiste, semplicemente perché ha comportamenti in netto contrasto con le leggi e perché la sua stessa presenza negherebbe la forza e il potere del regime, secondo il quale simili comportamenti appartengono al corrotto Occidente. Tra i clienti/consumatori anche gli anziani di una RSA che vengono sedati con budini alla marijuana, un passaggio che sollecita il sorriso in un film teso e drammatico.
Oltre allo spaccio locale il protagonista è ben inserito, grazie ad alcune hostess, anche nel traffico internazionale: loro gli consegnano smart drugs e altre sostanze provenienti da Amsterdam e lui le ripaga con l’oppio per il mercato internazionale. È uno spacciatore gentile, cortese e si preoccupa per la salute dei suoi clienti. Il film non si sbilancia, non esprime e non lascia trasparire alcun giudizio etico sul protagonista, ma il pubblico è nei fatti portato a tifare per lui quando, scoperto, si dà alla fuga: la figura dello spacciatore internazionale inseguito dalla legge soccombe di fronte a quella dell’eroe che infrange le regole stabilite da un regime dittatoriale.
La presentazione ufficiale del festival arriva a scrivere a proposito del film “… una quotidianità sempre in bilico, sotto un regime che ti fa sentire criminale solo perché vuoi vivere in libertà, secondo dei valori universali ma non condivisi dai mullah” e a proposito della hostess/complice: “E’ una donna a portare la droga dell’Occidente, la vitalità e le grida selvagge nel silenzio di una città attraversata a tutta velocità”.
Personalmente non condivido questo big-bang; è doveroso criticare il regime iraniano per la mancanza di democrazia e di libertà, per la repressione delle donne, per la pena capitale ecc. ecc., ma questo non può portarmi a trasformare in esempio di libertà il traffico internazionale di droghe, reato, oltretutto, presente in tutte le legislazioni del mondo. Mi pare che in questo caso, la foga ideologica sia andata ben oltre l’intento stesso del film, che “semplicemente” illustrando quella Teheran notturna negata dal regime mostrava la debolezza e le falsità della narrazione ufficiale.
Nu astepta prea mult de la sfarsitul lumii (Do not expect too much from the end of the world) si si svolge su tre differenti piani narrativi che si alternano tra loro. In quello principale, ambientato ai giorni nostri, Angela, una giovane donna, percorre in lungo e in largo le strade di Bucarest per raccogliere le testimonianze di chi è rimasto vittima di un infortunio sul lavoro. Le interviste dovranno essere poi sottoposte alla valutazione del committente, un network austriaco che lavora su commissione di finanziatori internazionali e che sceglierà quale storia inserire nel video. Il protagonista prescelto riceverà un premio in denaro.
Angela è sempre di corsa nel caotico traffico della capitale rumena, riceve insulti ed è oggetto di imprecazioni da vari uomini al volante, lavora anche sedici ore al giorno, cerca inutilmente di ottenere una pausa dal suo capo che, responsabile di una piccola casa di produzione, deve rendere conto agli esigenti committenti austriaci; questi ben rappresentano la filiera e la piramide dell’organizzazione del lavoro all’interno dell’UE, dove le regole le stabiliscono le grandi aziende e in questo caso i grandi network, dell’ex Europa occidentale.
Evidente è la contraddizione di chi svolge un’indagine sugli infortuni sul lavoro, mentre, a sua volta, è sottoposta a ritmi lavorativi e a condizioni di precarietà che costituiscono proprio le cause principali dell’oggetto dell’inchiesta. La manager austriaca, giunta a Bucarest per controllare il procedere del lavoro, coglie la contraddizione, ma la risolve in meno di un minuto accettando per vere le parole di Angela che, dopo averle confessato la propria situazione di totale burn-out, la rassicura affermando che sono altri i lavori che le producono stress, non certo la collaborazione con la produzione austriaca! La ribellione allo sfruttamento realizzato dalle multinazionali occidentali non riesce a trovare, nei protagonisti del film, una forma compiuta di critica verso il sistema neoliberista e cerca rifugio ed espressione, attraverso un ancor vivo e storicamente motivato sentimento antitedesco e antiaustriaco, in una dura requisitoria sul comportamento che gli austriaci ebbero verso il nazismo, nel 1938, durante l’Anschluss e in un’invocazione verso Putin in chiave antinazista.
La parte finale, durante la quale viene girato il video con la testimonianza del lavoratore selezionato, è tremendamente realistica e ha provocato in me collera, irritazione e disgusto: stavo assistendo a qualcosa che ben conoscevo e che ho sperimentato, seppure come spettatore, più e più volte. Una storia di sofferenza e di ingiustizia viene mediaticamente cannibalizzata; l’impegno per veder rispettati i propri diritti è trasformato in pietismo e talvolta le parti vengono capovolte con la vittima che diventa il carnefice di sé stesso.
Il racconto della vita di Angela è intervallato da sequenze tratte da un film del 1981, “Angela merge mai departe” realizzato all’epoca di Ceausescu, che mostrano una donna tassista guidare per le strade di Bucarest, integrata e rispettata dai colleghi uomini, in un Paese con all’ordine del giorno lunghe code per l’acquisto dei generi di prima necessità. Il film stimola una riflessione tra il passato e il presente, ma qui si ferma e lascia agli spettatori il compito di elaborare un proprio giudizio.
Il terzo piano, che periodicamente si inserisce nella narrazione, è costituito da un avatar maschile di Angela, al quale è lasciata la libertà di esprimersi senza censure, in modo irriverente e provocatorio.
Un film non solo fortemente critico verso la società dello spettacolo, ma anche verso il neoliberismo, le sue conseguenze sull’organizzazione del lavoro e il suo impatto distruttivo sulla vita privata, trasformata in una variabile dipendente della precarietà lavorativa.
Stepne racconta di Anatoliy, un uomo di mezza età, che ritorna al suo paese, un piccolo villaggio nell’est dell’Ucraina per assistere la madre giunta ai suoi ultimi giorni. Tutt’intorno è una steppa con ampi orizzonti disabitati; in paese sono rimasti solo gli anziani, custodi e forse, una volta, anche protagonisti, di una tormentata storia che ha attraversato il nazismo e l’esperienza sovietica. La vicenda personale, ambientata in un periodo successivo al dissolvimento dell’URSS, attraverso ricordi e oggetti ripropone quadri di vita passata che s’intrecciano con la memoria collettiva di quella comunità, mentre la Storia rimane sullo sfondo, presente ma spettatrice non invadente. Cresce la ricerca di un’appartenenza e delle proprie radici, mentre contemporaneamente si fa largo la consapevolezza dell’imminente separazione non solo dalla madre, ma anche da quel mondo, da quella comunità. Un film nel quale i silenzi, i sospesi, il non detto e le allusioni spesso pesano più delle parole. È uno spaccato dell’Ucraina profonda in una regione dove l’Europa svanisce nelle steppe asiatiche.
La guerra attuale nel film non c’è.
Dramma e commedia si alternano, sempre fortemente ancorati alla realtà, anche quando un uomo d’affari, subito dopo il funerale della madre, si presenta per acquistare il terreno, in una scena che si svolge in quello che una volta era un vecchio castello e che oggi contiene un mercato sotterraneo: breve ma significativa finestra attraverso la quale l’oggi si affaccia sul mondo di ieri.
Un film che parla di relazioni umane di reincontri e separazioni, una narrazione delicata e profonda; se nel riconoscimento ottenuto dovesse aver pesato anche la nazionalità della regista, in questo caso non si potrebbe certo parlare di un premio professionalmente non meritato.