Il “pieno accordo” tra Giorgia Meloni e Joe Biden non desta stupore: il sostegno incondizionato alla guerra in Ucraina non lascia spazio a divergenze di sorta. In più Giorgia si è iscritta anche alla guerra – per ora solo “commerciale” – alla Cina e in cambio ha ammesso – contro le sue convinzioni – che bisogna “fare qualcosa” sui cambiamenti climatici. D’altronde l’accordo tra gli Stati Uniti e i fascisti, padri e nonni di Fratelli d’Italia, è vecchio di almeno 70 anni e ha sempre visto i primi nelle vesti di mandanti e gli altri in quelle di esecutori di (quasi?) tutte le stragi che hanno infestato il nostro Paese dal dopoguerra in poi.
Il governo italiano va così ad aggiungersi a quelli che, nel nome di “dio, patria e famiglie” (le loro) stanno spostando verso Est, ma in realtà in direzione opposta, verso Washington, l’asse politico dell’Unione Europea; con il vantaggio, per Washington che, a differenza del governo polacco, quello italiano non freme, almeno per ora, per portare tutta la Nato in guerra contro la Russia. Lo fa, per conto di tutti, Draghi. Quanto al sovranismo, si può dimenticarlo: alla resa dei conti il sovranismo è stato sempre e sarà per sempre quello della Nato. Il suo programma? Protrarre a tempo indefinito la guerra, l’economia di guerra, la militarizzazione, il bellicismo e l’autoritarismo (chiamiamolo pure fascismo) e – perché no? – le distruzioni e le ricostruzioni che la guerra comporta.
Si dà la caccia ai piromani che innescano gli incendi che stanno distruggendo le foreste in tutto il mondo per non dire che la siccità che rende indomabili gli incendi (i piromani ci sono sempre stati: Erostrato, che incendiò il tempio di Artemide a Efeso, era uno di loro) è una manifestazione della crisi climatica. D’altronde, si sa, “in estate fa caldo”… Le distruzioni, l’inquinamento, le emissioni di CO2 e le morti – non poche decine, ma centinaia di migliaia – che la guerra in Ucraina, come tutte le altre guerre, sta provocando, sono cento volte maggiori di quelle degli incendi, ma non vengono messe in conto: nessuno dà la caccia agli incendiari che l’hanno innescata e covata per anni. “Salvare il clima” a parole, sì, ma guai a toccargli la guerra! Adesso che Washington ha rimesso il clima in agenda, persino Mattarella se ne ricorda, Pichetto Fratin piange in pubblico (dejàvu) e i giornali ne lodano la lungimiranza. Ma è possibile che non sappiano che la guerra azzera ogni misura per far fronte alla crisi climatica?
Purtroppo, anche nella sacrosanta lettera con cui cento scienziati italiani invitano i media a “dire la verità” sulle cause dei disastri in corso (non è “maltempo”) e sulle misure da prendere per affrontarli, sul tema “guerra” si soprassiede. E, a parte un fugace accenno alle “politiche di adattamento per proteggere persone e territori da quegli effetti del cambiamento climatico divenuti ormai irreparabili”, quell’invito ai media si concentra esclusivamente sulle misure di mitigazione: “Rapida eliminazione dell’uso di carbone, petrolio e gas, e decarbonizzazione attraverso le energie rinnovabili”. Ma è tutta qui “la verità” a cui i media dovrebbero aprire pagine e servizi? No, purtroppo c’è molto altro ed è ora di aprire gli occhi anche su quello.
Comunque vada – ma non ci sarà certo un cambio di rotta subitaneo a livello mondiale, soprattutto ora che la Cop 28 è stata assegnata a una petromonarchia, sotto la direzione di un magnate del petrolio – le emissioni climalteranti continueranno e supereranno il budget disponibile per fermarsi a +1,5 °C. Ma se anche cessassero domani, la Terra continuerà comunque a riscaldarsi per anni. Calotte polari e ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello degli oceani ad alzarsi sommergendo milioni di chilometri quadrati di terre emerse, i fiumi a non ricevere più acqua e il permafrost a emettere metano nell’atmosfera, innescando un feed-back positivo. Gli eventi estremi – uragani, alluvioni, grandinate, ondate di caldo, siccità e incendi – sono destinati a moltiplicarsi (anche se venissero arrestati tutti i piromani). Prima che tutti i governi, le imprese, le città, i produttori e i consumatori del mondo siano costretti, dalla violenza degli eventi avversi più che da accordi a livello internazionale, nazionale e locale, a rinunciare a far uso degli idrocarburi sepolti in quella cassaforte che chiamano Terra, questa avrà avuto tutto il tempo di andare in rovina.
Sono già cambiate, e continueranno a cambiare, le correnti sia dell’atmosfera che degli oceani e con esse il “tempo”: quello locale, sul cui andamento siamo abituati a organizzare la nostra vita quotidiana. Cambierà anche questa, volenti o nolenti. Le comunità, grandi o piccole, che sapranno attrezzarsi per adattarsi a condizioni di vita sempre più ostiche – una vita più sobria, ma anche più ricca di relazioni e di esperienze – faranno da apripista a quelle che, bene o male, dovranno seguirle, pena la loro scomparsa.
Secondo Gaia Vince (ne Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) entro la fine del secolo la metà più popolata del pianeta sarà inabitabile per le temperature troppo elevate o perché sommersa dal mare. Ci saranno centinaia di milioni, forse miliardi di profughi e migranti che cercheranno scampo nella metà del pianeta ancora vivibile, soprattutto quella settentrionale, resa forse più fertile dal riscaldamento globale. Ma occorre fare i conti con le fobie anti-migranti attizzate ormai in tutti i Paesi di immigrazione, dalla Svezia alla Tunisia, dal Myanmar all’Australia, dagli Stati Uniti al Giappone.
Ma quanti di noi li fanno, quei conti? Fin dal 2004 il Pentagono aveva scritto che i Paesi “sviluppati” avrebbero dovuto prepararsi a una guerra senza quartiere contro ondate di profughi che avrebbero cercato di sfondare i loro confini. Quelli che non lo avessero fatto erano condannati a soccombere. Ecco da dove nasce la “Fortezza Europa”: dalla convinzione che in questo mondo non c’è più posto per tutti. Quello che in realtà viene prospettato dai razzisti di “Fortezza Europa” e di molte altre fortezze – senza dirlo e nascondendosi, al contrario, dietro professioni di negazionismo climatico – è lo sterminio, per abbandono o per aperto contrasto, di più della metà della popolazione mondiale. Le campagne e le misure contro i profughi e migranti “clandestini” di oggi servono ad abituarci a queste stragi, a coltivare la nostra indifferenza.
“Non possiamo accogliere nel nostro Paese, e nemmeno in Europa, tutta l’Africa, che al 2050 avrà due miliardi di abitanti!” E’ quello che ci viene ripetuto anche dai meglio intenzionati, senza mai tener conto di ciò che questa affermazione comporta se ci si ferma lì. Ma c’è un’alternativa? Dobbiamo cercarla. Nessuno si è mai trovato di fronte a un dilemma simile prima d’ora, ma non lo si affronta certo ignorandolo. Non resta che cercare di rallentare, per poi fermare e invertire, le conseguenze del riscaldamento globale anche su quella metà del pianeta che ne è più colpita. Quelle terre inaridite e devastate possono ancora essere risanate, rimboschite, irrigate, coltivate, con tanti progetti grandi e piccoli come quello, per metà abbandonato, della grande cintura verde del Sahel, rinforzando o ricostituendo le comunità locali come presidio del risanamento del loro territorio. Ma chi può farsi protagonista di una svolta del genere se non il flusso – per ora, e ancora per pochi anni, così limitato – dei migranti che raggiungono l’Europa, se venissero accolti, inclusi, formati e arricchiti delle relazioni con le comunità che li ospitano e messi così in condizione sia di poter tornare volontariamente alle loro terre di origine – cosa che la maggior parte di loro desidera – ma anche di rientrare quando vogliono nel Paese in cui si sono rifugiati? E chi può progettare meglio il futuro del proprio Paese e lottare di più contro chi lo sta riducendo a un deserto e a un inferno politico se non la comunità degli espatriati che ne sono fuggiti?
Certo la guerra, la militarizzazione del mondo e la vendita di armi ai dittatori, come lo sfruttamento senza limiti dei loro Paesi, non aiutano, ma questi sono problemi che riguardano innanzitutto noi.