Dopo l’episodio avvenuto a Gradačac, in migliaia sono scesi nelle piazze di tutta la Bosnia Erzegovina per manifestare contro i femminicidi e la violenza sulle donne, e per chiedere alle autorità di garantire alle donne una protezione concreta
L’episodio di Gradačac
Lo scorso 16 agosto le bandiere a Sarajevo e Banja Luka sventolavano a mezz’asta per rendere omaggio alle vittime del massacro di Gradačac. Lì, l’11 agosto un uomo ha ucciso la sua compagna in live streaming su Instagram, per poi uccidere altre due persone e ferirne altre, prima di suicidarsi. Nel video, poi rimosso da Instagram dopo migliaia di views e decine di like, si vedeva l’uomo impugnare una pistola ed esplodere un proiettile in fronte alla compagna Nizama Hećimović, mentre il loro figlio di 9 mesi piangeva lì vicino.
La donna aveva già allertato la polizia in merito ai comportamenti violenti dell’uomo, che solo qualche giorno prima del massacro aveva annunciato ai propri follower su Instagram l’imminente femminicidio in diretta. L’assassino, il 35enne Nermin Sulejmanović, era un bodybuilder e allenatore di fitness con precedenti per traffico di droga e aggressione nei confronti di un agente di polizia.
Rimpallo di responsabilità e lutto nazionale (ma separato)
La reazione più viscerale è stata quella dei concittadini di Nizama, esasperati dal fatto che la vittima avesse già denunciato per molestie e violenze alle autorità il suo futuro assassino. A tal proposito, Ifeta Ćesir-Škoro, membro dell’Initiative of citizens of Mostar, ha affermato ai microfoni di Radio Slobodna Evropa che la polizia, nonostante fosse stata allertata, “non ha fatto nulla per garantire la sicurezza della donna” e che l’omicidio quindi “si poteva evitare”.
Subito è partito il rimpallo di responsabilità: le autorità hanno reso noto che indagheranno su diversi agenti di polizia, che non avrebbero preso sul serio le denunce di Nizama. La giudice della corte di Gradačac, indicata da alcuni come corresponsabile per non aver emesso ordinanze restrittive verso Sulejmanović, si è difesa dicendo che la polizia non aveva incluso alcun documento di supporto alla richiesta.
Non sono mancate strumentalizzazioni politiche. Lo stesso lutto nazionale è stato indetto separatamente dalle due entità del paese, poiché i due ministri serbo-bosniaci nel governo statale, Staša Košarac e Nenad Nešić (quest’ultimo ministro per la sicurezza) si sono opposti ad avere un lutto davvero nazionale, con la scusa delle competenze della Republika Srpska.
Le manifestazioni
Nei giorni seguenti si sono moltiplicate in tutta la Bosnia Erzegovina le manifestazioni per denunciare questo clima di violenza “profondamente radicato nella società” e chiedere alle autorità misure concrete per la tutela delle donne. A Gradačac, Sarajevo, Mostar, Tuzla e Zenica, le manifestanti hanno impugnato striscioni con gli slogan “Il silenzio è complice”, “Non vivremo nella paura” o “Stop ai femminicidi”, oltre a“Sarajevo against violence”, che fa eco allo slogan delle proteste durate mesi nella vicina Serbia dopo i terribili episodi nel maggio scorso.
La sindaca di Sarajevo Benjamina Karić, in testa alla parata che si è svolta nella capitale, ha dichiarato che “Sarajevo dice no alla violenza e ai femminicidi e mostra il proprio sostegno a tutte le vittime”. Anche il portavoce delle Nazioni Unite Stéphane Dujarric ha espresso cordoglio e orrore per la vicenda di Gradačac, dichiarando che il femminicidio rappresenta una violazione dei diritti umani “grave e lampante”.
Come nelle mobilitazioni avvenute dopo l’ondata #MeToo che ha travolto i Balcani nel 2021, le manifestanti hanno chiesto che il femminicidio venga riconosciuto come un crimine a sè nel codice penale, come una forma specifica di omicidio, con pene più severe (proposta sostenuta anche dal ministro per i diritti umani Sevlid Hurtić) e una reale prevenzione, in modo che le donne che trovano il coraggio di denunciare violenze possano sentirsi davvero protette.
I dati delle violenze
Secondo le associazioni per la difesa dei diritti delle donne, i femminicidi e gli atti di violenza sono sempre più frequenti, e sempre più violenti. Due giorni prima della tragedia di Gradačac, migliaia di manifestanti si erano già radunati a Jablanica e in altre località del paese dopo l’eco mediatica che aveva suscitato un episodio di violenza verso una dipendente di un albergo della zona lo scorso 1° agosto da parte del titolare, che si rifiutava di pagarla.
Quasi una donna bosniaca su due ha subìto almeno una forma di violenza dopo i 15 anni, nella sfera privata o professionale. Secondo i dati dell’Agenzia statale per l’uguaglianza di genere, dal 2015 sono state uccise più di 60 donne. Ma per le associazioni queste cifre sono in realtà molto più alte. Spesso abbandonate a loro stesse, sono poche le donne che hanno il coraggio di denunciare prima che sia troppo tardi.
Queste tendenze in merito alla violenza contro le donne non si registrano solo in Bosnia, ma in tutti i Balcani, dove le società restano impregnate di patriarcato e percorse da tensioni politiche e sociali. La parità di genere in questa porzione d’Europa sembra ancora più utopica che altrove.
D’altra parte, anche in Europa occidentale il femminicidio resta l’unico reato in cui la vittima viene considerata corresponsabile, e in cui il primo processo spesso avviene proprio davanti a quelle persone che dovrebbero aiutare le donne. C’è dunque un intero orizzonte culturale da cambiare, con resistenze che vanno abbattute al più presto. Non è più in gioco solo una questione di diritti di metà del genere umano, ma di responsabilità da condividere per un futuro migliore, per tutti.