Il lido del mare, le spiagge e le rade sono demanio necessario dello Stato e, dunque, non possono appartenere a nessun altro che allo Stato quale rappresentante della collettività.

Il lido è quindi una concessione su un bene demaniale e le spiagge sono un bene che appartiene a tutti e di cui tutti dovrebbero, in teoria, poterne godere, ma in Italia la concessione pubblica di tale bene pubblico si è trasformata in una rendita di posizione e di privilegio, con una resistenza ad oltranza verso qualsiasi accenno di introduzione della libera concorrenza con gare pubbliche trasparenti.

Resistenza ad oltranza che si fa beffa delle innumerevoli sentenze già pronunciate (tra cui spiccano quella della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2016, quella doppia del Consiglio di Stato, sentenze gemelle n. 17 e 18 del 9 novembre del 2021: https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-pronuncia-sulla-proroga-automatica-delle-concessioni-demaniali e quella della Cgue del 20 aprile 2023), grazie alla sponda delle destre al potere che hanno fatto incetta di voti degli operatori balneari promettendo di bloccare l’applicazione della direttiva Bolkestein alle concessioni demaniali delle spiagge.

Con le spiagge siamo sostanzialmente di fronte a un regime semi-privatistico nella gestione di uno specifico bene pubblico. Un bene pubblico che fa la fortuna di pochissimi privati, a scapito dell’interesse generale: la

Corte dei Conti, in un rapporto sulle concessioni balneari pubblicato alla fine del 2021, segnalava, come media del periodo 2016-2020, che i proventi dei beni del demanio marittimo realmente riscossi non raggiungevano nemmeno 98 milioni di €, a fronte di un giro d’affari stimato in 15 miliardi di € l’anno.

Non solo, ma in Italia abbiamo le percentuali più alte in Europa di spiagge date in concessione: in Francia, ad esempio, per legge è previsto che su tutto il territorio nazionale deve essere garantito che vi sia l’80% di spiaggia libera e le concessioni possono durare per un massimo di 12 anni, mentre in Spagna una normativa del 2013 ha arretrato le concessioni di molti metri rispetto alla costa e le spiagge libere sono anche qui l’80%.

L’ultimo pretesto al quale le destre si sono aggrappate per continuare a favorire i concessionari è “la scarsità della risorsa spiaggia”, in quanto la Direttiva può non essere applicata qualora l’oggetto della concessione “non risulti limitato per via della scarsità delle risorse”. E allora via con un censimento e i soliti “tavoli”, con l’obiettivo di far passare altro tempo (magari scavallare le elezioni europee) e di arrivare ad una procedura selettiva solo per le concessioni ex novo. E’ di questi giorni il report spiagge Legambiente 2023 che mostra come a livello nazionale siano 12.166 le concessioni per gli stabilimenti balneari e 1.838 le concessioni per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici.

Circa il 43%  dell’intera costa. Il dato peggiora di molto in alcune regioni come la Campania, la Liguria e l’Emilia-Romagna, dove quasi il 70% del litorale è occupato da stabilimenti balneari, con punte in alcuni Comuni prossime al 100%. La sentenza della Cgue chiarisce che “il diritto dell’Unione non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del Comune in questione”. Quindi, in Comuni o Regioni in cui l’occupazione del litorale supera il 70%, la questione “risorsa non limitata”non si dovrebbe neppure lontanamente porre. E i dati che utilizza Legambiente sono quelli del monitoraggio del Sistema informativo demanio marittimo (S.I.D.), effettuato a maggio 2021, a cui sono stati aggiunti gli stabilimenti presenti in Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, non inseriti nell’elenco, incrociando foto satellitari, studi redatti da Camere di Commercio, Sindacato Balneari e Doxa. Quindi, più che affidabili.

Mentre tutta l’attenzione del Governo è protesa alla sola difesa degli interessi dei balneari, c’è però il rischio concreto che il cambiamento climatico inciderà drammaticamente su tutto, sul turismo come sulle coste. Lo scorso 23 maggio, lo studio “Regional impact of climate change on European tourism demand”, realizzato dal Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC), analizzando dati di 269 regioni raccolti in vent’anni si cerca di prevedere come cambieranno le cose da qui al 2100, simulando gli impatti dei futuri cambiamenti climatici sulla domanda turistica per 4 livelli di riscaldamento (1,5°C, 2°C, 3°C e 4°C) in due percorsi di emissione.

Ed è l’Europa meridionale ad avere la peggio con le sue aree costiere, che per via dell’innalzamento dei mari e della maggiore esposizione agli eventi meterologici estremi rischiamo di essere spazzate via: https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/handle/JRC131508. Altro che Bolkestein!