Secondo un’inchiesta di Welt am Sonntag e di POLITICO sembrerebbe che le autorità italiane sapessero che il peschereccio Adriana, naufragato nella notte tra il 13 e 14 giugno scorso a sud-ovest di Pylos, con oltre 700 persone a bordo, era in una situazione di pericolo (distress) prima di quanto non abbiano finora ammesso. I nuovi dettagli sono rivelati in un documento interno all’agenzia di frontiera dell’UE Frontex consultato da Welt, e farebbero parte di un “rapporto di incidente grave” che Frontex sta compilando sulla tragedia, dopo il breve comunicato pubblicato subito dopo il naufragio.
Secondo questo documento interno, le autorità italiane avrebbero avvertito, già nella prima mattinata del 13 giugno scorso, la Centrale di coordinamento (MRCC) della guardia costiera greca, Frontex, alle 8:01 (UTC) del mattino, poco più di un’ora dopo il primo avvistamento del peschereccio Adriana alle 6:51 di quella stessa mattina.
Lo stesso 13 giugno, nel primo pomeriggio, l’organizzazione ALARMPHONE rilanciava la richiesta di soccorsi immediati chiamando la Guardia Costiera ellenica alle 16:53 CEST dopo che le persone a bordo dell’Adriana avevano chiamato continuando a chiedere aiuto. Nel comunicato di questa organizzazione si legge che “le autorità greche, secondo quanto riferito anche Italia e Malta, erano già state allertate diverse ore prima. Le autorità greche e altre autorità europee erano quindi ben consapevoli di questa nave sovraffollata e inadatta alla navigazione. Non è stata avviata un’operazione di salvataggio”.
Nonostante l’allarme, le autorità greche non hanno inviato una nave della guardia costiera fino alle 19:40. La Adriana si è poi capovolta intorno alle 23:00, circa 15 ore dopo l’arrivo dell’avviso di Roma, provocando la morte di circa 600 persone. Dopo la richiesta di un commento, il governo greco ha fatto riferimento a una dichiarazione sul sito web della guardia costiera greca del 14 giugno, che conferma le informazioni sul caso giunte da Roma intorno alle 8 del mattino del giorno precedente.
Come osserva ECRE, “a un mese dal naufragio di Pylos il governo devia, i media indagano e Frontex contempla”. Anche da parte del governo italiano, il silenzio più totale. Se non ci fossero in diverse parti del mondo i giornalisti di inchiesta, che non si rassegnano al silenzio imposto dai governi, di questa ennesima strage non se ne parlerebbe più, come delle altre che si continuano a verificare nel Mediterraneo centrale.
Si comprende a questo punto che è in corso l’ennesimo rimpallo delle responsabilità tra Frontex e gli Stati costieri. Secondo quanto dichiarato dalla parlamentare tedesca Clara Bünger, “all’avvistamento di una barca così sovraffollata, Frontex avrebbe dovuto emettere immediatamente un segnale di soccorso mayday; ancor di più se Frontex sapesse che già martedì mattina (13 giugno) a bordo c’erano due bambini morti».
Frontex opera sotto il coordinamento delle autorità nazionali, e dei centri interforze istituiti presso i ministeri dell’interno, ed il Diritto internazionale del mare impone a qualunque Stato sia avvertito di una situazione di pericolo in mare un intervento immediato, anche al di fuori della zona SAR di propria competenza, almeno fino a quando il caso non venga preso in carico da autorità competenti che possano garantire un porto sicuro di sbarco. E tra le autorità nazionali responsabili di zone di ricerca e salvataggio (SAR) confinanti, esiste un preciso dovere di coordinamento, finalizzato non certo ad attività illegali di respingimento collettivo, ma alla salvaguardia della vita umana in mare.
La Commissione europea ha mantenuto una linea di ambiguità, affermando di non commentare “indagini in corso” o “fughe di notizie”, ma aggiungendo anche che “I fatti sul tragico incidente al largo di Pylos devono essere chiariti. Questa è la priorità ora”.
In una dichiarazione congiunta, l’Agenzia per i rifugiati UNHCR e l’Agenzia per le migrazioni OIM, hanno affermato che il dovere di soccorrere senza indugio le persone in pericolo in mare è una regola “fondamentale” del diritto marittimo internazionale, aggiungendo che l’attuale approccio alle traversate del Mar Mediterraneo – una delle rotte migratorie più pericolose e mortali del mondo – è “impraticabile”.
Le indagini in Grecia si sono finora limitate alla individuazione di presunti scafisti, e da parte del governo non cè alcuna intenzione di sanzionare le responsabilità di quelle autorità marittime che, con tutta probabilità, hanno causato il ribaltamento del peschereccio Adriana, in difficoltà da ore, con un maldestro tentativo di rimorchio verso le acque rientranti nella zona SAR maltese, dove come in numerose altre occasioni, si potevano attendere i soccorsi coordinati dall’Italia. Del resto ormai la Guardia costiera greca non esita a sparare davanti alle imbarcazioni cariche di migranti.
Se sembrano sempre più evidenti, almeno dalle indagini internazionali, le responsabilità della Guardia costiera greca, e del governo che poche settimane dopo la strage è uscito vincitore dalle elezioni politiche, non si può trascurare il ruolo di inerzia delle autorità italiane, per l’intera giornata del 13 giugno, che, una volta trasmesso ai greci l’allarme, non hanno neppure tentato di collaborare nelle attività di ricerca e salvataggio dell’Adriana in evidente situazione di grave pericolo (distress) sin dal momento del primo avvistamento ben quindici ore prima del ribaltamento avvenuto attorno alle 23 del 13 giugno. Quindici ore in cui gli Stati responsabili delle zone SAR nel mare Ionio più vicine a quella greca (Italia e Malta), nella quale si è verificato il naufragio, avrebbero potuto inviare mezzi di soccorso, anche in considerazione dell’elevatissimo numero di persone imbarcate a bordo dell’Adriana, che certo non potevano essere salvate con un trasbordo su una singola motovedetta. Una operazione di soccorso che per la zona nella quale si doveva svolgere, e per il numero delle persone in pericolo, non poteva che richiedere la partecipazione di autorità marittime di diversi Stati. Le immagini diffuse di recente dal Guardian dimostrano quali fossero le condizioni di instabilità dell’Adriana già ore prima del suo ribaltamento.
Ma non basta guardare alle responsabilità delle autorità greche. Come ha denunciato AlarmPhone, “se nessun paese si assume il comando del salvataggio, la responsabilità resta di tutti. “Il dovere di salvare permane”.
Adesso, nell’inerzia delle magistrature nazionali, non rimane che attendere che la strage di Pylos venga portata all’attenzione della Giustizia internazionale. I precedenti non mancano. Come emerge da una ricerca di Hannah Katz e Itamar Mann, nel luglio dello scorso anno la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha pubblicato la sua sentenza nel caso Safi e altri c. Grecia, pronunciandosi su quello che è diventato noto come il naufragio di Farmakonisi del 2014. I superstiti della strage di Pylos potrebbero porre alla Corte di Strasburgo questioni che la Corte EDU ha già esaminato nel caso Safi. La sentenza della Corte nel caso Safi c. Grecia potrebbe costituire un precedente in favore delle denunce dei sopravvissuti del naufragio dell’Adriana e dunque per una condanna, quanto meno, delle autorità greche. In quel caso, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato all’unanimità violazioni da parte della Grecia degli obblighi procedurali e positivi dell’articolo 2 (diritto alla vita) per tutti i 16 ricorrenti e violazioni dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) per 12 dei ricorrenti. La Corte ha condannato l’incapacità dello Stato (greco) di rispondere adeguatamente al rischio per la vita dei passeggeri e di indagare adeguatamente sul fatale affondamento della nave, nonché l’imposizione di perquisizioni corporali su alcuni dei sopravvissuti”. Nel caso dei superstiti della strage di Pylos la polizia greca ha intimidito i testimoni ed ha sequestrato e fatto scomparire i telefoni sui quali i naufraghi avevano registrato le immagini di diverse unità navali, nelle ultime ore prima del ribaltamento dell’Adriana.
Tutti sapevano, nessuno è intervenuto in tempo per salvare uomini, donne, bambini, a rischio in alto mare. In un’intervista a POLITICO, il neo-nominato ministro greco per le migrazioni Dimitris Kairidis ha invitato l’Unione europea a riprendere un’operazione che mira a fermare i migranti prima di lasciare la Libia, un punto di partenza comune per i richiedenti asilo che arrivano in Europa. Esattamente la stessa richiesta che la Meloni sta portando oggi al premier tunisino Saied, con l’appoggio del premier (dimissionario) Mark Rutte, e della Presidente della Commissione europea. Neanche un accenno agli obblighi di soccorso e coordinamento delle attività SAR (ricerca e salvataggio) in acque internazionali.
Le Convenzioni internazionali UNCLOS, SOLAS e SAR impongono agli Stati parte precisi obblighi di coordinamento nelle attività di ricerca e salvataggio, al fine di salvaguardare la vita umana in mare. Gli Stati costieri hanno l’obbligo di organizzare e mantenere un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima (articolo 92.2 UNCLOS) e l’autorità marittima che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio deve immediatamente provvedere al soccorso.
La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) richiede agli Stati parte « di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste. Tali accordi dovranno comprendere l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di tali strutture di ricerca e soccorso, quando esse vengano ritenute praticabili e necessarie (Capitolo V, Regola 7)».
Secondo le linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), Agenzia delle Nazioni unite per il mare, si prevede che il primo Comando centrale di Guardia costiera (MRCC) che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza SAR ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area, o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20.5.2004).
Il problema che si ripresenta ad ogni naufragio è però costituito dal fatto che se si tratta di imbarcazioni destinate al trasporto di migranti le autorità statali negano fino all’ultimo che ricorra una situazione di “pericolo grave” (distress), ed anche nei rapporti tra Stati affrontano il caso come se si trattasse di un evento migratorio illegale (law enforcement) e non di un caso di ricerca e salvataggio (SAR), che le autorità statali rifiutano di dichiarare. Basta andare con la memoria alla strage di Cutro, una “strage di sistema” o ripercorrere nella recente sentenza del Tribunale di Roma tutte le fasi della “strage dei bambini” dell’11 ottobre 2013, a sud di Malta, non lontano da dove ha fatto naufragio l’Adriana, per verificare su dati incontrovertibili le prassi di abbandono in mare adottate dagli Stati. Prassi che a distanza di dieci anni si ripetono ancora e continuano a produrre vittime.
Se i doveri di coordinamento e di cooperazione sanciti dalle Convenzioni internazionali fossero stati rispettati il 13 giugno scorso a sud ovest di Pylos, al fine di salvaguardare la vita umana in mare, senza lasciare respingere da una zona SAR all’altra il barcone stracarico di migranti, forse oggi potremmo contare centinaia di vittime in meno. Una strage silenziosa e rimossa, quella che si continua a verificare giorno dopo giorno nel Mediterraneo, frutto di accordi sui respingimenti collettivi per delega e su prassi di desistenza, che come sostengono i governanti italiani e greci, risulterebbero anche più efficaci dei “blocchi navali”. Non certo in termini di deterrenza sulle partenze e sugli arrivi. Vediamo con quali costi in termini di vite umane.
pubblicato anche su A-dif.org