La guerra è oggi lo spartiacque, ciò che schiera i fronti. Da una parte stanno i sostenitori della pace, dall’altra chi vuole la guerra (fino alla vittoria, naturalmente, come vuole la retorica del combattente senza macchia e con molti peccati). Da una parte la maggioranza dell’opinione pubblica del nostro Paese contraria all’invio di armi in Ucraina, dall’altra il nostro Parlamento perfettamente al completo, senza alcuna distinzione ormai tra destra e sinistra istituzionale. Tutti uniti appassionatamente. Tutti per l’invio delle armi e per le sanzioni contro il nemico. Tutti buoni soldatini al servizio degli Stati Uniti e della NATO. Tutti per la guerra senza l’ombra di un dubbio.

Qualcuno dice che è facile essere per la pace, senza avere alcuna idea su come la guerra possa essere messa a tacere. Il richiamo alle trattative è troppo generico, ed è vero. Ma un’idea chiara e precisa di pace ce l’abbiamo, ed è in fondo molto antica. Basta rifarsi al vecchio principio dell’autodeterminazione dei popoli. Se l’ONU avesse una vera autorità e non fosse ridotta a una tragica barzelletta in mano alle potenze guerrafondaie, avrebbe potuto imporsi facendo ritirare gli eserciti e indicendo un referendum nelle zone contese. Naturalmente assicurandosi in modo preventivo che, a prescindere dall’esito della consultazione, i territori in questione restassero smilitarizzati anche in futuro e sancendo un patto con tutte le parti in gioco sul rispetto e sulla parità di condizione di tutte le minoranze.

Nella difficoltà del momento, un ruolo fondamentale nella costruzione di un fronte pacifista dovrebbero assumerselo forze politiche non presenti in Parlamento, come Unione Popolare, alla quale anch’io appartengo.

Personalmente ritengo che nella lotta per il rifiuto della guerra occorrerebbe rispolverare vecchi slogan come il classico “FUORI L’ITALIA DALLA NATO” e “FUORI LA NATO DALL’ITALIA”. Su questo non tutti sono d’accordo, ritenendo che tali proposizioni siano irrealiste. Io al contrario penso che le nostre parole d’ordine debbano rispecchiare quello che realmente siamo e quello che pensiamo e indicare quello che faremmo se vincessimo le elezioni col 51% dei consensi. Lo so che questo è impossibile, ma restare fermi sulle nostre posizioni permette che sia a tutti chiara quale è la nostra identità antagonista e militante. Quella che potrebbe farci conoscere meglio e farci magari guadagnare qualche consenso in più, meglio  se non solo d’opinione, ma militante.

Non dobbiamo cioè ragionare con realismo politico, come di chi è chiamato a pronunciarsi su una scelta istituzionale, o sull’opportunità di stringere possibili alleanze con forze affini, ed è dunque costretto a stabilire cosa è irrinunciabile e ciò su cui si può invece mediare in un’ottica di negoziazione.

Noi non siamo legati a nessun principio di realtà, che non sia quello dettato dalle piazze e dai movimenti antagonisti e di protesta. Con loro dobbiamo dialogare e allearci. Con loro decidere obiettivi e parole d’ordine, senza paura di “chiedere troppo” a chi, in verità, non è disposto a darci nulla.